Nell’articolo «Un pianeta affollato a Sud e invecchiato a Nord» avevamo visto che da oggi sino a fine secolo passeremo forse da 7,7 miliardi di persone a quasi 11. Il tasso di fertilità, secondo il «World Population Prospects 2019», andrà calando e quindi l’età media andrà aumentando. La crescita demografica, infatti, sarà sempre più lenta, ma in ogni caso ci sarà. Un ulteriore apporto di più di tre miliardi di persone sarà quindi sostenibile dal punto di vista delle risorse naturali? Secondo le stime delle Nazioni Unite la crescita demografica si concentrerà in Africa, i cui abitanti hanno un’impronta ecologica molto più bassa rispetto agli Stati Uniti, per esempio, ma verosimilmente vorranno legittimamente migliorare il loro standard di vita come, per altro, sancito dall’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile.

Nello scorso articolo ci eravamo lasciati con la domanda: quanto le previsioni del rapporto «I limiti della crescita» del Club di Roma si sono verificate?

Un Research Paper del Melbourne Sustainable Society Institute del 2014, intitolato «Is Global Collapse Imminent?» confronta le previsioni elaborate dal noto rapporto del Club di Roma con i dati storici, per arrivare al grafico seguente.

Quello che si scrive nel documento è sostanzialmente che i dati storici (dal 1970 al 2010) seguono con una certa precisione le tendenze delineate nel 1972. Osservare nel dettaglio questa analisi, richiederebbe molto tempo, per comprendere a pieno le caratteristiche – e le criticità – del modello World3 (usato per la simulazione dei parametri globali nel rapporto originario) e per descrivere come sono stati raccolti e rappresentati i dati storici. Tuttavia, questo documento – come altri, per cui è stato anche irrobustito il modello di riferimento – non modificano più di tanto l’idea di base del rapporto del 1972. E cioè che esiste una correlazione tra crescita della popolazione mondiale e sfruttamento delle risorse naturali che non può essere trascurata. Il problema di quanto la crescita demografica impatti sui noti «confini planetari» è estremamente complesso, proveremo qui a dare qualche spunto di riflessione.

Le impronte ecologiche

Come riporta il sito overshootday.org, tra i primi indici elaborati per misurare l’impatto delle attività umane sull’ambiente c’è quello elaborato dai coniugi Ehlric: «quell’impatto (I) può essere concepito come il prodotto di tre fattori: la dimensione della popolazione (P); una qualche misura di abbondanza [affluence, ndr] o consumo pro capite (A); e il danno ambientale fatto per unità di consumo», che rende conto di quanto sono sviluppate le tecnologie in uso (T). «L’intera crisi popolazione-risorse-ambiente può essere incapsulata nell’equazione I = PAT». Che per altro è fatalmente assonante con la stessa parola «impact».

Oggi, l’impronta ecologica è misurata in ettari globali (gha) ed è confrontata con la biocapacità: se la superficie individuata dall’impronta ecologica supera quella della biocapacità, siamo di fronte a un deficit ecologico. «Concepita nel 1990 da Mathis Wackernagel e William Rees all’Università della British Columbia, l’Impronta Ecologica» comprende «l’impronta di carbonio, ed è ora ampiamente utilizzata da scienziati, aziende, governi, individui e istituzioni che lavorano per monitorare l’uso delle risorse ecologiche e promuovere lo sviluppo sostenibile», si legge nel sito del Global Footprint Network. Le variabili prese in considerazione hanno a che fare con le quantità – richieste dalle attività umane e disponibili in natura – di «frutta e verdura, carne, pesce, legno, cotone per vestiti, e assorbimento di anidride carbonica». Al 2017, pur con forti differenze tra paesi e continenti, la biocapacità pro capite ammontava a 1,6 ettari globali mentre l’impronta ecologica pro capite a 2,8 ettari gobali, avendo quindi un deficit ecologico di 1,2 ettari globali. Di seguito il grafico che rappresenta l’andamento di entrambe le grandezze dal 1970 al 2017.

Interessante notare, come fa Our World in Data, che parte dell’aumento dell’impronta ecologica mondiale è stato evitato grazie a una migliore efficienza nell’utilizzo delle risorse naturali. Per esempio, nel caso dei cereali (che rappresentano la componente base della nostra alimentazione) dal 1961 al 2014 «la produzione cerealicola globale è aumentata del 280%» contro un aumento della popolazione del 136%. C’è stata quindi una crescita nella resa media dei cereali del 175%, solo con il 16% in più di terra usata. Questo è potuto avvenire grazie a fertilizzanti, pesticidi ed erbicidi, ma anche a una migliore irrigazione e meccanizzazione delle tecniche agricole, e all’uso di ceppi di colture con rendimento maggiore.

Com’è logico, se il deficit ecologico non viene risanato, sul medio/lungo periodo non può che essere insostenibile e quindi mettere in pericolo lo stesso benessere umano.

Clima e biodiversità

Come scrive il gruppo di David Tilman su Nature in uno studio del 2017, «Future threats to biodiversity and pathways to their prevention», «si prevede che la futura crescita della popolazione e lo sviluppo economico imporranno livelli senza precedenti di rischio di estinzione per molte più specie in tutto il mondo, specialmente i grandi mammiferi dell’Africa tropicale, dell’Asia e del Sud America». Tra i maggiori fattori di rischio c’è la perdita di habitat a causa dell’estendersi di aree agricole, che colpisce circa l’80% di tutte le specie di uccelli e mammiferi terrestri. Ma a minacciare gli habitat vi sono anche il disboscamento, l’urbanizzazione, l’estrazione mineraria e la creazione di corridoi di trasporto. Le varie forme di «mortalità diretta» come la caccia mettono in pericolo fino al 50% di tutte le specie di uccelli e mammiferi e una percentuale ancora maggiore di grandi erbivori.

Come per la biodiversità, anche per il cambiamento climatico si sono accumulati studi che mettono in luce quanto un’eccessiva crescita della popolazione non possa che impattare negativamente sull’integrità della biosfera – e quindi anche sul nostro benessere complessivo. Nel 2017, nel Environmental Research Letters, Seth Wynes e Kimberly A. Nicholas hanno indicato quali azioni personali impattano di più nella riduzione dell’impronta di carbonio: dieta con meno carne, usare poco l’automobile o abbandonarla, usare energia rinnovabile, pochi viaggi in aereo e fare meno figli. Riportiamo di seguito una rielaborazione dei dati del gruppo di lavoro.

Gli impatti su clima, biodiversità e risorse, in ogni caso, dipendono non solo dal numero di persone che popolano il pianeta ma anche dal modo in cui vivono, per cui tanto il livello di tecnologia quanto gli stili di vita e il modello di sviluppo rappresentano variabili importanti.

Lo studio del 2017 «Impact of population growth and population ethics on climate change mitigation policy» pubblicato su PNAS, con prima firma Noah Scovronick, afferma che indubitabilmente una crescita della popolazione globale farebbe aumentare le tonnellate di gas serra immesse in atmosfera. Tuttavia, ci sarebbero diversi metodi per contenere la crescita di popolazione e allo stesso tempo non penalizzare i paesi poveri che legittimamente auspicano uno sviluppo tanto sociale quanto economico. I ricercatori hanno usato due approcci diversi per stimare il costo sociale dell’anidride carbonica, all’aumentare del benessere totale. Il primo considera un incremento del benessere come un incremento delle persone benestanti, che ha un costo sociale elevato soprattutto considerando le stime di crescita demografica ONU al rialzo, ovviamente. Il secondo si basa su politiche di intervento per ridurre fame e povertà e investire in istruzione nei paesi poveri: così facendo si ridurrebbe il tasso di fertilità di questi paesi con un costo sociale molto più basso e allo stesso tempo si faciliterebbe il loro sviluppo.

 

FonteScienza in Rete

LEGGI TUTTE LE ALTRE NEWS