La fonte di gran lunga principale di approvvigionamento della vitamina D è la luce solare. Questa consiste in una serie di energie radianti, di varie lunghezze d’onda, dalle più lunghe chiamate infrarossi alle più corte chiamate radiazioni ultraviolette (UV), che consistono, principalmente, in tre tipi:

UVA: penetrano più profondamente la crosta terrestre e così la pelle, alterandone le caratteristiche elastiche, eccitando la produzione di radicali liberi, stimolando il sistema immunitario e i melanociti, cioè le cellule pigmentate della pelle. Gli UVA (320-400 nm) e la maggior parte degli UVB (290-319 nm) raggiungono la superficie terrestre in vari gradi e con differenti effetti sul corpo.

UVB: sono i soli raggi solari che stimolano la produzione di vitamina D.

UVC: hanno lunghezza d’onda da 200 a 280 nanometri (nm), al pari di alcuni degli UVB (281-289 nm); vengono completamente assorbiti dallo strato di ozono che circonda l’atmosfera terrestre, per cui non raggiungeranno mai gli esseri umani.

Ci sono molti altri fattori fisici che possono influenzare la produzione di vitamina D:

a) l’ora del giorno; infatti i raggi solari sono più efficaci a mezzogiorno e nelle ore vicine, quando il sole è allo zenit e i suoi raggi sono più corti. Al contrario, durante il primo mattino o il tardo pomeriggio l’intensità dei raggi UV è molto minore e così pure la produzione di vitamina D.

b) Il periodo dell’anno; la stagione estiva è sicuramente la più ricca di raggi UV.

c) La latitudine; i raggi solari sono più intensi all’equatore, dove la distanza del sole dalla Terra è minore. Man mano che ci si allontana dall’equatore la potenza del sole diminuisce e, con essa, la produzione di vitamina D. Secondo il dott. Michael Holick del Boston University Medical Center, uno dei massimi esperti in questo argomento, l’età soglia del rischio di carenza è di circa 15 anni: se uno vive ai tropici sino a 15 anni e poi si sposta in una regione molto più a nord, dove minima è l’esposizione solare, conserva un basso rischio di ammalarsi di malattie autoimmuni; invece il rischio cresce se si trasferisce ben prima dei 15 anni.

d) L’altitudine; i raggi solari sono più intensi quanto maggiore è la quota a cui ci si trova.

e) Il clima e l’inquinamento; se ci sono molte nuvole, i raggi UV penetrano meno la pelle per formare la vitamina D, ma possono ugualmente provocare ustioni. L’inquinamento atmosferico, specie nelle grandi aree metropolitane, può peggiorare la situazione agendo da schermo.

f) Il colore della pelle; più questa è scura, con un alto grado di melanina, meno riceve i raggi UVB che producono la vitamina D. Per formare la stessa quantità di questa sostanza, perciò, le persone di colore necessitano di un maggior tempo espositivo alla luce solare rispetto a quelle dalla pelle chiara. Infatti la melanina è un pigmento che assorbe i raggi UV, inibendo la produzione di vitamina D.

g) L’età; con l’avanzare degli anni diminuisce la quantità di vitamina D attivata. Un settantenne possiede un quarto della capacità di sintetizzare e attivare questa sostanza rispetto a un ventenne.

h) Il peso corporeo; le persone in sovrappeso, soprattutto quelle con una maggiore massa grassa, hanno difficoltà a utilizzare la vitamina D in quanto le cellule adipose la “sequestrano”, rendendola meno disponibile all’utilizzazione delle altre cellule del corpo e dei tessuti.

i) L’abbigliamento; più copriamo il corpo e diminuiamo il contatto diretto della pelle con il sole, minore sarà la produzione di vitamina D.

l) Vita artificiale; nella nostra moderna società occidentale si usa vivere al chiuso in case, fabbriche, uffici, scuole ecc., per cui l’esposizione solare è enormemente diminuita rispetto ai tempi dei nostri antenati, che vivevano principalmente all’aria aperta.

m) Le creme solari di uso comune, specie durante l’estate; esse impediscono l’assorbimento dei raggi solari e, pertanto, la formazione della vitamina D di oltre il 90%. Per cui se una persona va al mare cosparsa di crema solare non potrà trarre benefici dalla tintarella. Sulle motivazioni di questo indiscriminato uso di schermi solari e sulla eccessiva paura dei tumori della pelle parleremo in seguito.

Sole e melanoma, incerto binomio

Oggi si stima che circa un miliardo di persone nel mondo presenti una reale carenza di vitamina D, ma questi dati sono evidentemente poco realistici. In effetti, già dalla fine degli anni Ottanta del Novecento i medici hanno cominciato a mettere in guardia la popolazione perché si tenesse lontana dai raggi del sole o per lo meno usasse schermi protettivi, allo scopo di prevenire l’insorgenza del melanoma, un tumore maligno della pelle. Purtroppo questi consigli non sono stati accompagnati dal suggerimento di assumere un’integrazione di vitamina D, cosa che ne ha ulteriormente peggiorato la carenza a livelli quasi epidemici, con enormi ripercussioni sulla salute pubblica.
A tutt’oggi non esiste una seria e scientifica evidenza che il rischio di melanoma sia connesso a una moderata esposizione al sole.
Nessuno, nel mondo medico, ha inoltre mai detto chiaramente che quest’ultima può apportare solo benefici, mentre se è intensa e prolungata potrebbe, in rari casi di predisposizione, portare a un aumento del rischio di melanoma.

Elioterapia ieri e oggi

Pochi sanno che il primo istituto elioterapico fu aperto dal medico svizzero Arnold Rikli a Trieste (allora austro-ungarica) a metà dell’Ottocento, quando l’esposizione ai raggi del nostro astro aveva raggiunto una grande popolarità. Ma la terapia che sfrutta il sole era conosciuta già nell’antichità: i romani impiegavano il solarium per sani e malati, mentre i greci curavano con il sole le piaghe e altre malattie cutanee. Lo stesso metodo era utilizzato in India, Cina ed Egitto per guarire diverse malattie, tra cui la psoriasi. Nel Rinascimento l’elioterapia acquisì dignità scientifica, e nel 1769 Spallanzani ne dimostrava l’attività battericida. Nel 1815 Chauvin la prescriveva per i pazienti debilitati, nel 1853 Vanzetti la impiegò con successo nelle artriti croniche e nelle osteoperiostiti tubercolari. In seguito i bagni solari servirono a trattare una serie di affezioni, tra cui la tubercolosi e l’insonnia.
Negli anni successivi si sono moltiplicati gli studi sulla validità di questo tipo di cura, che è risultata efficace tanto nelle malattie dermatologiche quanto in quelle osteoarticolari, respiratorie e nei disturbi dell’umore. In questi casi viene tuttora impiegata e sostituita nei mesi invernali o in climi freddi dalla fototerapia, che utilizza la luce solare generata da apparecchi appositi.

Consigli per l’esposizione al sole

Una cauta esposizione al sole, fuori dagli orari a rischio e osservando le raccomandazioni ufficiali, è la chiave di volta per l’assorbimento della vitamina D. Ecco alcuni consigli utili.

Filtri solari. Già abbiamo parlato dello schermo creato dalle creme protettive. Un filtro solare fattore 15 assorbe la quasi totalità dei raggi UVB; come dire che non si sintetizza quasi per niente la D. Per fortuna ci viene in aiuto l’olio di cocco, che protegge senza schermare. Anche gli occhi vanno opportunamente riparati quando ci si espone al sole.

Attenzione ai riflessi. L’acqua del mare, del fiume o del lago creano riflessi che possono rivelarsi ustionanti per la pelle. Lo stesso vale per la neve in alta montagna.

Lettini e lampade solari. Sono stati classificati dalla IARC come cancerogeni, soprattutto se si inizia in giovane età. I raggi UVA emessi sono molti di più rispetto a quelli che si assorbono in una giornata di sole. Nella migliore delle ipotesi, danneggiano la pelle e la vista. Inoltre non favoriscono l’attivazione della vitamina D, perché la carica necessaria proviene dai raggi solari UVB.

Sole di vetro. Prendere il sole dietro la finestra di casa o il parabrezza dell’auto è dannoso e inutile ai fini della sintesi della D. I raggi UVB non superano la barriera, in compenso la oltrepassano gli UVA, quelli che aumentano lo stress ossidativo, favorendo l’invecchiamento.

Montagna. In altitudine l’aria è più rarefatta e il sole risulta più forte; basta quindi un’esposizione minore per la sintesi della D.

Troppi abiti. Va da sé, spogliarsi in inverno non è auspicabile: al massimo si potranno esporre viso e polsi. Ma all’inizio della primavera, nelle giornate più miti, non perdiamo l’occasione di fare una passeggiata sbracciati, fra le 10 e le 15, per circa 20 minuti. Si deve cominciare con tempi ridotti, da aumentare gradualmente.

 

Fonte: TerraNuova.it

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