La nostra Amazzonia

Articolo del 21 Marzo 2023

La deforestazione dell’Amazzonia continua senza tregua. Nel primo ventennio del secolo, solo in Brasile sono andati persi 360 000 km2. Aumenta il rischio di raggiungimento del punto di non ritorno: decenni di incendi e cambiamenti d’uso del suolo rischiano di convertire il polmone verde amazzonico da assorbitore a emettitore netto di CO2.
Un effetto del degrado della foresta pluviale può essere la compromissione del gigantesco sistema dei “fiumi volanti” in atmosfera, generati dalla traspirazione delle piante e dall’evaporazione dal terreno. Il ciclo idrologico di buona parte dell’America del Sud – e forse non solo – sarebbe stravolto, con effetti disastrosi per l’agricoltura e la tenuta sociale ed economica di molti Paesi. Il collasso idrico stesso accelererebbe la trasformazione della foresta in savana.
Il taglia-e-brucia (slash and burn) è la pratica più diffusa per la rimozione della foresta, un suicidio ambientale ed economico. I terreni denudati dalla copertura vegetale sostengono agricoltura e pastorizia per non più di tre anni, dopo i quali non resta che procedere ulteriormente con motoseghe, machete e fuoco, in un delirio autodistruttivo.

 

Le sfide che ci attendono

Mentre il nuovo Presidente brasiliano promette di fermare il disastro, c’è chi lavora per provare a ridurre i danni già fatti. Si moltiplicano iniziative che promuovono lo sviluppo agro-forestale, per tentare un non facile equilibrio tra riforestazione e agricoltura.
Le sfide da affrontare sono tante. Una è rendere le comunità locali protagoniste di un diverso modello di sviluppo, offrendo possibilità di un lavoro sicuro e sostenibile nel tempo, sia per le persone che per la natura. Un’altra è chiudere il cerchio facendo arrivare prodotti agricoli di qualità sul mercato (la domanda non manca) partendo da migliaia di piccole aziende sparse su territori immensi.

 

Ricordi

Negli anni del liceo passavo le estati a lavorare nei campi in un piccolo appezzamento di terreno del nonno, circa 9 ettari suddivisi in 12 campi delimitati da fossi ben curati. Ci si coltivava di tutto: patate, cipolle, aglio, asparagi, barbabietole, grano. C’erano anche alberi da frutto, in particolare peschi, prugni e peri. Ricordo che il nonno si vantava di un pesco che lui diceva essere di una qualità rara. Sosteneva di averlo solo lui, in zona. Non ricordo il nome della qualità (accidenti a me…) ma ricordo il sapore unico e l’orgoglio con cui caricava in macchina le quattro casse di quelle pesche bianche, enormi e profumate, da portare al mercato: era un rito annuale. Il denaro che incassava era un dettaglio rispetto all’orgoglio di mostrarle in giro.
Il momento clou dell’estate era la raccolta delle patate: un piccolo attrezzo attaccato al trattore e tenuto fermo manualmente da un operatore “apriva” le singole file, portando alla luce i tuberi. La terra umida e scura smossa di fresco aveva un odore inconfondibilmente piacevole, simile a quello che respiravamo sul campetto da calcio, ma molto più intenso.
Alcuni mesi fa, ho scavato col badile una piccola buca nel campo di grano di un amico, subito dopo la mietitura. A un paio di chilometri in linea d’aria dall’ex campo del nonno, speravo di rivivere le stesse sensazioni. Non è andata così. Al posto della terra scura, una specie di pallido fango secco. Prendendolo in mano hai la sensazione di una sorta di piattaforma artificiale. Imbottita per decenni di fertilizzanti e antiparassitari, riesce ancora a far crescere le piante, ma appare ormai sfinita.
L’ex campo del nonno è ancora lì. È diventato un rettangolo di terra messo in rotazione a monocultura: grano, barbabietola, erba medica. Fossi e cavedagne sono stati cancellati, non c’è più un albero che sia uno, biodiversità annientata. Non ho il coraggio di andare a fare la “prova badile” per annusare il terreno. Tempo fa ho visto cacciatori bardati di tutto punto che camminavano in mezzo a quel deserto. Un misto di tenerezza per loro e di inattesa simpatia a scoppio ritardato per quelli che ti sbucavano tra gli alberi 40 anni fa.
Il suolo è una risorsa insostituibile e limitata. Non occorre un viaggio in Sudamerica: l’Amazzonia è intorno a noi.

 

Fonte: Sapere Scienza

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