Pazienti Covid, ecco gli effetti a breve e lungo termine dell’infezione

Articolo del 29 Dicembre 2020

Una delle preoccupanti considerazioni derivate dalla pandemia da SARS-COV-2 è stata che il virus non aggredisce solo i polmoni con una polmonite interstiziale che lesiona seriamente gli alveoli e trombizza i piccoli vasi conducendo ad una insufficienza respiratoria talora mortale, ma attacca tutti gli organi causando alcuni deficit che probabilmente permangono a lungo e con conseguenze importanti.

Recentemente una pubblicazione della Rockfeller University riporta l’individuazione dei pazienti “long-haulers”, cioè persone che dopo una infezione iniziale spesso moderata e curata a domicilio, non riescono a guarire e rimangono incapacitati perché non respirano adeguatamente e presentano una serie di altri sintomi cronici come costanti dolori al petto e al cuore, sintomi intestinali, mal di testa, incapacità a concentrarsi, perdita di memoria, tachicardia anche al solo passaggio da sdraiati a seduti.

Ma anche debolezza neuromuscolare, fatica, mancanza di respiro soprattutto sotto sforzo, tosse e moltissima debolezza. Altre alterazioni: riduzione dell’olfatto e dei gusti e disturbi del sonno. Inoltre, ci sono probabilità che vadano incontro a stroke più o meno gravi o ad attacco ischemico transitorio nell’immediato ma anche nel medio-periodo legati all’alterazione della coagulazione. Questo è il quadro presentato durante il webinar “Organopatia da Covid-19. Diagnosi, terapia e follow up” organizzato da Motore Sanità.

I dati parlano chiaro: tra 1/5 e 1/10 dei pazienti soffrono di sintomi che durano più di un mese, mentre in un paziente su 45 (2,2%) perdurano per più di 3 mesi. Attualmente nel mondo sono segnalate circa 4 milioni di persone con sequele e malattia con sequele croniche. Sono colpiti sia pazienti che hanno avuto una infezione grave sia lieve e/o moderata. Una parte di questi pazienti hanno una permanenza del virus annidata in alcuni organi che determina una pioggia citochinica continua con stato infiammatorio e, se si giunge ad immunodepressione, anche alla riattivazione della malattia con aggravamento importante.

Cuore, cervello, apparato gastrointestinale, rene sono gli organi colpiti con conseguenze talora pesanti, da cui l’importanza di una consapevolezza clinica delle patologie derivanti, a partire dalla loro diagnosi, terapia e soprattutto follow up come organizzato da alcune Regioni al fine di capire l’importanza e la varietà dei residui post Covid nei cittadini contagiati.

Oggi c’è un farmaco che modula gli effetti della tempesta citochimica e potrebbe avere influenza anche su manifestazioni croniche.
“La somministrazione del Baricitinib, medicinale già impiegato per la cura dell’artrite reumatoide, e usato in modo ‘off-label’ sui 20 pazienti affetti dalle forme più gravi di Covid-19, ha mostrato in 7 giorni di somministrazione una marcata riduzione dei livelli sierici delle citochine infiammatorie mentre i linfociti T e B circolanti ritornano alla norma e il titolo anticorpale contro il virus si alza – ha spiegato Vincenzo Bronte, Direttore Immunologia AOUI Verona – in altri termini, il farmaco ripristina la capacità difensiva del sistema immunitario danneggiata dal Covid. I risultati sono stati confermati da uno studio clinico statunitense che ha visto la somministrazione del Baricitinib in combinazione con il Remdesivir su una popolazione di 1.000 pazienti con polmonite da Covid-19”.

Secondo una analisi condotta dalla Pneumologia dell’Ospedale di Cremona, a 5-6 mesi dalla dimissione, su circa 400 pazienti già ricontrollati, la più frequente sintomatologia riferita è astenia, affaticabilità, dolori diffusi, dispnea inspiratoria a riposo, senso di costrizione toracica, alterazione del sonno, ansia e paura. Il 90% della sintomatologia è legata a problema ansioso e a stress. Anche gli operatori sanitari riportano gravi conseguenze.

“Si registra una condizione di elevato impatto emotivo – ha spiegato Giancarlo Bosio, Direttore Pneumologia Ospedale di Cremona – la paura di infettarsi è stata elevata ma comunque minore della paura di infettare i familiari; il livello di benessere soggettivo è drasticamente diminuito e anche nella fase successiva post emergenziale non è tornata ai livelli precedenti: l’impatto emotivo è stato generalizzato e sono presenti per alcuni operatori manifestazioni persistenti degli eventi critici associate a difficoltà nel sonno e ad ansia; quasi due operatori su 3 accetta un supporto o sostegno emotivo”.

Quello che già si sta osservando negli ambulatori è una recidiva dei pazienti che hanno una sindrome dell’intestino irritabile, che hanno avuto un’infezione da Covid, l’elemento trigger che riaccende i sintomi funzionali.

“Ma ci sono dei pazienti che non hanno mai avuto sintomi funzionali, hanno fatto l’infezione da Covid e sviluppano una sindrome tipica della sindrome dell’intestino irritabile, e non è una cosa nuova – ha ammesso Franco Radaelli, Direttore UOC Gastroenterologia Ospedale Valduce di Como – Sappiamo che dopo una infezione del tratto gastroenterico circa un 10% dei pazienti sviluppa una sindrome dell’intestino irritabile post-infettiva. Il danno citopatico diretto del virus dà un’alterazione della permeabilità intestinale che dà una attivazione del sistema immunitario enterico che porta un’alterata motilità, una iperalgesia viscerale, a una disbiosi intestinale (i tre meccanismi fisiopatologici principali dei disturbi funzionali dell’apparato gastroenterico). Inoltre, la sindrome post Covid è caratterizzata da un’alterazione dello stato psichico (ansia, depressione), che nel doppio legame che c’è nell’asse cervello-intestino influenza negativamente la percezione di tutti i sintomi gastrointestinali. Ci aspetteremo nel prossimo futuro proprio un aumento dei pazienti nelle cliniche dei disturbi funzionali che hanno avuto infezione da Covid”.

C’è una relazione importante tra le malattie cardiovascolari e il Covid. “Sia perché che le malattie cardiovascolari preesistenti, in qualche modo, influenzano la prognosi e la storia clinica del paziente Covid, sia perché il Covid di per sé determina malattie cardiovascolari – ha spiegato Claudio Bilato, Direttore UO Cardiologia Ospedale “Cazzavillan” Arzignano – Sicuramente c’è una persistenza di sintomi post Covid che sembrerebbe non riguardare almeno in gran parte la patologia cardiovascolare, ma sicuramente i danni miocardici e polmonari accusati durante l’infezione da Covid possono determinare delle sequele importanti non solo in termini di scompenso ma, per esempio, se si pensa ad una fibrosi polmonare, può determinare una ipertensione polmonare cronica, malattia che sicuramente oltre a rappresentare una prognosi compromessa peggiora anche drasticamente la qualità di vita”.

Presso l’IRCCS San Martino di Genova è stato creato un follow up a brevissimo termine per monitorare il paziente dimesso dalla terapia intensiva e sottoporlo ad un vero e proprio programma di riabilitazione intenso in cui la fisioterapia ha un ruolo fondamentale.
“I pazienti vengono mantenuti dai 3 ai 10 ai 15 giorni perché almeno il 30%-35% di loro presentano ulteriori problematiche che necessitano di essere trattate in maniera molto rapida – ha spiegato Paolo Pelosi, Professore Ordinario in Anestesiologia e Rianimazione, Direttore UOC Anestesia e Terapia Intensiva IRCCS San Martino Genova – E’ estremamente importante il monitoraggio continuo della saturazione e della fatica respiratoria e l’intubazione precoce nei pazienti con grave difficoltà respiratoria”.

Invece, per affrontare le positività persistenti in pazienti e operatori sanitari, nei laboratori di Microbiologia e Virologia dell’Azienda Ospedale Università di Padova sono stati messi a punto degli esami molecolari ulteriori per poter dare degli aiuti ulteriori ai clinici. “Il nostro obiettivo è verificare se queste bassissime positività persistenti sono legate ad un virus che è ancora in fase replicativa oppure se sono solo una scia in cui il virus non è più infettante – ha spiegato Lucia Rossi, Microbiologia e Virologia dell’Azienda Ospedale Università di Padova – In questi mesi, in parallelo abbiamo fatto sia le colture cellulari sia la ricerca del mRNA subgenomico – ha aggiunto Elisa Franchin, Microbiologia e Virologia dell’Azienda Ospedale Università di Padova – Stiamo adottando questi tipi criteri di ricerca del campione del virus per la gestione dei pazienti e del personale che deve rientrare al lavoro”.

“A fronte di un numero importante di ricoveri negli ospedali e di ricoveri in terapie intensive, quindi di un importante numero di pazienti che dovranno essere presi in carico dopo le dimissioni, le istituzioni devono pensare di favorire lo sviluppo di percorsi appropriati di salute nell’ambito di queste patologie – ha spiegato Franco Ripa, Responsabile Programmazione dei Servizi Sanitari e Socio Sanitari Regione Piemonte – ovvero modelli che devono partire da linee guida, che devono essere tradotti dal punto di vista organizzativo e soprattutto valutati”.

 

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