Se persistenti, i sentimenti di solitudine provocano cambiamenti nel cervello che, in un circolo vizioso, possono ostacolare la capacità di fidarsi ed entrare in contatto con gli altri. Esistono però gli indizi per possibili terapie efficaci.

La stazione polare Neumayer III si trova vicino al bordo dell’inclemente piattaforma di ghiaccio Ekström dell’Antartide. Durante l’inverno, quando le temperature possono scendere sotto i -50 °C e i venti possono superare i 100 chilometri all’ora, nessuno può entrare o uscire dalla stazione. Il suo isolamento è essenziale per gli esperimenti scientifici di meteorologia, atmosfera e geofisica effettuati dalla manciata di scienziati che vi lavorano durante i mesi invernali e che sopportano la sua gelida solitudine.

Ma qualche anno fa, la stazione è diventata anche il luogo di uno studio sulla solitudine stessa. Un’équipe di scienziati tedeschi voleva verificare se l’isolamento sociale e la monotonia ambientale segnassero il cervello delle persone che effettuavano lunghi soggiorni in Antartide. Otto tra le persone che hanno lavorato alla stazione Neumayer III per 14 mesi hanno accettato di farsi scansionare il cervello prima e dopo la missione e di farsi monitorare la chimica cerebrale e le prestazioni cognitive durante il soggiorno. (Anche un nono membro dell’equipaggio ha partecipato, ma non ha potuto essere sottoposto a scansione cerebrale per motivi medici.)

Come descritto dai ricercatori nel 2019, rispetto a un gruppo di controllo, il gruppo socialmente isolato ha perso volume nella corteccia prefrontale, la regione nella parte anteriore del cervello, appena dietro la fronte, che è principalmente responsabile del processo decisionale e della risoluzione dei problemi. I soggetti socialmente isolati avevano anche livelli più bassi di fattore neurotrofico di derivazione cerebrale, una proteina che favorisce lo sviluppo e la sopravvivenza delle cellule nervose nel cervello. La riduzione è durata per almeno un mese e mezzo dopo il ritorno del gruppo dall’Antartide.

La remota stazione di ricerca polare Neumayer III è stata lo scenario di un esperimento che ha studiato come è cambiato il cervello dei partecipanti mentre erano isolati per 14 mesi in Antartide

 

Non è certo quanto ciò sia dovuto esclusivamente all’isolamento sociale dell’esperienza. Ma i risultati sono coerenti con l’evidenza di studi più recenti secondo cui la solitudine cronica altera significativamente il cervello in modi che non fanno che peggiorare il problema.

Le neuroscienze suggeriscono che la solitudine non deriva necessariamente dalla mancanza di opportunità di incontrare altre persone o dalla paura delle interazioni sociali. Al contrario, i circuiti cerebrali e i cambiamenti nel nostro comportamento possono intrappolarci in una situazione di stallo: se da un lato desideriamo entrare in contatto con gli altri, dall’altro li consideriamo inaffidabili, giudicanti e poco amichevoli. Di conseguenza, ci teniamo a distanza, rifiutando consciamente o inconsciamente le potenziali opportunità di connessione.

La solitudine può essere difficile da studiare empiricamente perché è del tutto soggettiva. L’isolamento sociale, una condizione correlata, è diverso: è una misurazione oggettiva del numero di relazioni che ha una persona. L’esperienza della solitudine deve essere auto-riferita, anche se i ricercatori hanno sviluppato strumenti come la UCLA Loneliness Scale per aiutare a valutare la profondità dei sentimenti di un individuo.

Da questo lavoro emerge chiaramente che il tributo fisico e psicologico della solitudine in tutto il mondo è profondo. In un sondaggio, il 22 per cento degli statunitensi e il 23 per cento dei britannici hanno dichiarato di sentirsi sempre o spesso soli. E questo prima della pandemia. Nell’ottobre 2020, il 36 per cento degli statunitensi ha dichiarato di sentirsi “profondamente solo”.

Ma la solitudine non è solo una sensazione negativa: si ripercuote sulla nostra salute. Può portare a pressione alta, ictus e malattie cardiache. Può anche raddoppiare il rischio di diabete di tipo 2 e aumentare la probabilità di demenza del 40 per cento. Di conseguenza, le persone cronicamente sole tendono ad avere un rischio di mortalità superiore dell’83 per cento rispetto a quelle che si sentono meno isolate.

Le organizzazioni e i governi spesso cercano di contrastare la solitudine incoraggiando le persone a uscire di più e istituendo club per hobby, giardini comunitari e gruppi di artigianato. Tuttavia, come dimostrano le neuroscienze, liberarsi della solitudine non è sempre così semplice.

Un bias verso il rifiuto

Quando alcuni anni fa neuroscienziati tedeschi e israeliani si sono messi a studiare la solitudine, si aspettavano di scoprire che i suoi fondamenti neurali erano simili a quelli dell’ansia sociale e coinvolgevano l’amigdala. Spesso chiamata il centro della paura del cervello, l’amigdala tende ad attivarsi quando ci troviamo di fronte a cose che temiamo, dai serpenti agli altri esseri umani. “Abbiamo pensato: l’ansia sociale è associata a un aumento dell’attività dell’amigdala, quindi dovrebbe essere così anche per gli individui soli”, ha detto Jana Lieberz, dottoranda all’Università di Bonn, in Germania, che ha fatto parte del team di ricerca.

Tuttavia, uno studio pubblicato dal gruppo nel 2022 ha rivelato che, sebbene le situazioni sociali minacciose scatenino una maggiore attività dell’amigdala nelle persone che soffrono di ansia sociale, non hanno lo stesso effetto sulle persone sole. Allo stesso modo, le persone con ansia sociale hanno una minore attività nelle sezioni del cervello dedicate alla ricompensa, cosa che non sembra essere vera per le persone sole.

“Le caratteristiche principali dell’ansia sociale non sono evidenti nella solitudine”, ha sottolineato Lieberz. Questi risultati suggeriscono che trattare la solitudine semplicemente dicendo alle persone sole di uscire e socializzare di più (come si può trattare la fobia dei serpenti con l’esposizione) spesso non funziona perché non affronta la causa principale della solitudine. Infatti, una recente metanalisi ha confermato che il semplice fornire alle persone sole un accesso più facile a potenziali amici non ha alcun effetto sulla solitudine soggettiva.

Il problema della solitudine sembra essere la distorsione (bias) del nostro pensiero. In studi comportamentali, le persone sole hanno percepito i segnali sociali negativi, come le immagini di rifiuto, entro 120 millisecondi: due volte più rapidamente delle persone con relazioni soddisfacenti e in meno della metà del tempo necessario per battere le palpebre. Le persone sole, inoltre, preferivano stare più lontane dagli estranei, si fidavano meno degli altri e non amavano il contatto fisico.

Questo potrebbe essere il motivo per cui il benessere emotivo delle persone sole segue spesso “una spirale discendente”, ha commentato Danilo Bzdok, ricercatore interdisciplinare alla McGill University con un retroterra in neuroscienze e apprendimento automatico. “Tendono a dare una connotazione più negativa a qualsiasi informazione ricevuta – espressioni facciali, messaggi, e così via, e questo li spinge ancora di più nella fossa della solitudine.”

Difetti nella rete di default

Bzdok e i suoi colleghi hanno effettuato gli studi più ampi finora condotti alla ricerca delle firme della solitudine nel cervello umano, studi che – spiega Bzdok – hanno coinvolto un numero di soggetti circa 100 volte superiore a quelli precedenti. I ricercatori hanno usato i dati della UK Biobank, una base di dati biomedica che contiene le scansioni cerebrali di circa 40.000 residenti nel Regno Unito, insieme a informazioni sul loro isolamento sociale e sulla solitudine.

I risultati, pubblicati nel 2020 su “Nature Communications”, hanno rivelato che l’hotspot della solitudine si trova all’interno della rete di default, una parte del cervello che si attiva quando siamo mentalmente in stand-by. “Fino a 20 anni fa non sapevamo nemmeno di avere questo sistema”, aggiunge Bzdok. Eppure gli studi hanno dimostrato che l’attività della rete di default è responsabile della maggior parte del consumo di energia del cervello.

Bzdok e il suo gruppo hanno dimostrato che alcune regioni della rete di default non solo sono più grandi nelle persone cronicamente sole, ma sono anche più fortemente collegate ad altre parti del cervello. Inoltre, la rete di default sembra essere coinvolta in molte delle abilità distintive che si sono evolute nell’essere umano, come il linguaggio, l’anticipazione del futuro e il ragionamento causale. Più in generale, la rete di default si attiva quando pensiamo alle altre persone, anche quando interpretiamo le loro intenzioni.

I risultati sulla connettività della rete di default hanno fornito prove di neuroimmagine a sostegno di precedenti scoperte degli psicologi, secondo cui le persone sole tendono a sognare a occhi aperti sulle interazioni sociali, a provare facilmente nostalgia per gli eventi sociali passati e persino ad antropomorfizzare i propri animali domestici, parlando per esempio con i propri gatti come se fossero umani. “La rete di default farebbe anche questo”, osserva Bzdok.

Se da un lato la solitudine può portare a una ricca vita sociale immaginaria, dall’altro può rendere meno gratificanti gli incontri sociali nella vita reale. Il motivo potrebbe essere stato individuato in uno studio del 2021 condotto da Bzdok e dai suoi colleghi, anch’esso basato sui voluminosi dati della Biobank del Regno Unito. I ricercatori hanno esaminato separatamente le persone socialmente isolate e quelle con scarso supporto sociale, misurato dalla mancanza di qualcuno con cui confidarsi quotidianamente o quasi. I ricercatori hanno scoperto che in tutti questi individui la corteccia orbitofrontale, una parte del cervello legata all’elaborazione delle ricompense, era più piccola.

L’anno scorso, un ampio studio di imaging cerebrale basato sui dati di oltre 1300 volontari giapponesi ha rivelato che una maggiore solitudine è associata a connessioni funzionali più forti nell’area cerebrale che gestisce l’attenzione visiva. Questa scoperta suffraga precedenti rapporti di studi di tracciamento dello sguardo secondo cui le persone sole tendono a concentrarsi eccessivamente su segnali sociali spiacevoli, come l’essere ignorati dagli altri.

Un desiderio profondo che crea però disagio

Tuttavia, sebbene le persone sole possano trovare gli incontri con gli altri “fonte di disagio” e poco gratificanti, sembrano comunque desiderare un legame. Il compianto John Cacioppo neuroscienziato all’Università di Chicago le cui ricerche gli sono valse il soprannome di “Dottor Solitudine” – ha ipotizzato che la solitudine sia un adattamento evolutivo, simile alla fame, che segnala che qualcosa è andato storto nella nostra vita. Proprio come la fame ci spinge a cercare il cibo, la solitudine dovrebbe spingerci a cercare un legame con gli altri. Per i nostri antenati della savana africana, la cui sopravvivenza dipendeva probabilmente dai legami con un gruppo, questo impulso sociale poteva essere una questione di vita o di morte.

Recenti dati di imaging cerebrale supportano l’idea che la solitudine sia profondamente radicata nella nostra psiche. In uno studio, Livia Tomova, ricercatrice in neuroscienze all’Università di Cambridge, e i suoi colleghi hanno chiesto a 40 persone di digiunare per dieci ore e di sottoporsi a scansione cerebrale mentre guardavano immagini di cibi appetitosi. Successivamente, gli stessi volontari hanno dovuto trascorrere dieci ore da soli, senza telefoni, e-mail o persino romanzi come surrogati del contatto. Poi sono stati sottoposti a una seconda scansione cerebrale, questa volta mentre guardavano immagini di gruppi di amici felici. Quando gli scienziati hanno confrontato le scansioni cerebrali di questi individui, i modelli di attivazione cerebrale di quando erano affamati e di quando si sentivano soli erano notevolmente simili.

Per Tomova, l’esperimento ha sottolineato un’importante verità sulla solitudine: se solo dieci ore senza contatti sociali sono sufficienti a suscitare essenzialmente gli stessi segnali neurali di una privazione di cibo, “questo evidenzia quanto sia fondamentale il nostro bisogno di entrare in contatto con gli altri”, ha detto.

Cervelli più grandi e più amici

Studi recenti sembrano confermare anche una teoria evolutiva chiamata “ipotesi del cervello sociale”, secondo cui una vita sociale intensa sarebbe legata a cervelli più grandi. L’idea è nata come teoria sul modo in cui i cervelli potrebbero essere cambiati nel corso dell’evoluzione, ma le dimensioni maggiori del cervello sembrano emergere anche direttamente dalle esperienze di vita. In generale, i primati non umani in cattività che vivono in gruppi sociali più numerosi o che condividono spazi con più compagni di gabbia hanno un cervello più grande. In particolare, i primati hanno più materia grigia nella corteccia prefrontale.

La ricerca suggerisce che gli esseri umani non sono molto diversi. Uno studio del 2022 ha scoperto che le persone anziane sole presentano spesso un’atrofia in parti del cervello tra cui il talamo, che elabora le emozioni, e l’ippocampo, un centro della memoria. Secondo gli autori, questi cambiamenti potrebbero contribuire a spiegare i legami tra solitudine e demenza.

Naturalmente, la domanda che ci si pone riguardo a tutti questi risultati è: le differenze nel cervello predispongono alla demenza? Le differenze cerebrali ci predispongono alla solitudine o la solitudine ricabla e riduce il cervello? Secondo Bzdok, al momento non è possibile risolvere questo enigma. Ritiene, tuttavia, che il nesso di causalità possa puntare in entrambe le direzioni.

Gli studi sui primati e i risultati dell’esperimento della stazione polare Neumayer III dimostrano che l’esperienza e l’ambiente sociale possono esercitare una forte influenza sulla struttura cerebrale di un individuo, innescando i cambiamenti che può provocare la solitudine. D’altra parte, gli studi sui gemelli hanno dimostrato che la solitudine è in parte ereditabile: quasi il 50 per cento delle variazioni nei sentimenti di solitudine degli individui può essere spiegato da differenze genetiche.

Le persone che soffrono di solitudine cronica non sono irrimediabilmente bloccate in questi sentimenti dalla natura e dall’educazione. Gli studi dimostrano che le terapie cognitive possono essere efficaci nel ridurre la solitudine, addestrando le persone a riconoscere come i loro comportamenti e i loro schemi di pensiero impediscano loro di creare i tipi di legami che apprezzano. Dovrebbe essere possibile migliorare gli interventi per la solitudine e l’isolamento sociale.

Prendiamo per esempio un recente studio in cui Lieberz e i suoi colleghi hanno esaminato l’attività cerebrale delle persone impegnate in un gioco basato sulla fiducia. Nelle scansioni cerebrali delle persone sole, una regione del cervello era molto meno attiva rispetto alle persone socievoli. Questa regione, l’insula, tende ad attivarsi quando esaminiamo le nostre sensazioni viscerali, spiega Lieberz. “Questo potrebbe essere il motivo per cui le persone sole hanno problemi a fidarsi degli altri: non possono fare affidamento sulle loro sensazioni viscerali”, spiega. Gli interventi che mirano alla fiducia potrebbero quindi essere una parte della soluzione al problema della solitudine.

Un’altra idea è incoraggiare la sincronia. Le ricerche dimostrano che una delle chiavi per capire quanto le persone si piacciono e si fidano l’una dell’altra è la corrispondenza tra i loro comportamenti e le loro reazioni di momento in momento. Questa sincronia tra individui può essere semplice come ricambiare un sorriso o rispecchiare il linguaggio del corpo durante una conversazione, o elaborata come cantare in un coro o far parte di una squadra di canottaggio. In uno studio pubblicato un anno fa, Lieberz e i suoi colleghi hanno dimostrato che le persone sole faticano a sincronizzarsi con gli altri e che questa discordanza manda in tilt le regioni del cervello responsabili dell’osservazione delle azioni. Allenare le persone sole a unirsi alle azioni degli altri potrebbe essere un altro intervento strategico da prendere in considerazione. Da sola non curerà la solitudine, “ma può essere un punto di partenza”, nota Lieberz.

E se tutto il resto fallisce, potrebbero esserci nuove terapie chimiche. In un esperimento effettuato in Svizzera, dopo aver assunto psilocibina, il composto psicoattivo dei funghi magici, i volontari hanno riferito di sentirsi meno esclusi socialmente. Le scansioni del loro cervello hanno mostrato una minore attività nelle aree che elaborano le esperienze sociali dolorose.

Anche se interventi come la terapia cognitivo-comportamentale, la promozione della fiducia e della sincronia o persino il consumo di funghi magici possono aiutare a trattare la solitudine cronica, i sentimenti transitori di solitudine rimarranno probabilmente sempre parte dell’esperienza umana. E non c’è niente di male in questo, chiarisce Tomova.

Tomova paragona la solitudine allo stress: è sgradevole ma non necessariamente negativa. “Fornisce energia al corpo, e così possiamo affrontare le sfide”, conclude. “Diventa problematica quando è cronica, perché il nostro corpo non è fatto per essere in questo stato costante. È allora che i nostri meccanismi di adattamento si guastano.”

 

Fonte: Le Scienze

LEGGI TUTTE LE ALTRE NEWS