La nuova frontiera delle cure mediche grazie alla commistione tra scienza a tecnologia. L’area oncologica, le malattie cardio vascolari e neurodegenerative sono i settori su cui si investe. E i medici diventano esperti di algoritmi.

Intervenire su chi sta bene anziché su chi è malato. È questo il cuore della medicina predittiva, la nuova frontiera delle cure mediche che, grazie a una sinergia virtuosa con la tecnologia, si concentra sull’individuazione e sulla prevenzione delle patologie prima che esse si manifestino. E che dunque, più che un concetto datato come la buona salute, mira a promuovere una cultura del benessere, mediante l’integrazione tra i dati clinici del paziente e il monitoraggio del suo stile di vita.

La medicina predittiva è una scienza probabilistica, che ricerca la fragilità o il difetto che conferiscono a ciascun individuo una certa predisposizione a sviluppare una malattia e, conseguentemente, consente la massima personalizzazione degli interventi, inclusi quelli farmacologici. Per determinare il profilo di rischio di ogni singola a persona, monitorare l’evoluzione del suo stato di salute e realizzare appropriati interventi preventivi, (nonché per selezionare una eventuale terapia, la dose e il tempo di trattamento migliori), oggi abbiamo a disposizione una enorme messe di dati.
Sono dati genomici e metabolici che vengono forniti da esami specifici, ma anche da apparecchi di monitoraggio come wearablesInternet of Things, sensori, teleconsulti: essi vengono elaborati in banche dati su cui è possibile costruire e testare algoritmi di intelligenza artificiale, in grado di comprendere le probabilità di incidenza di una data malattia e talvolta perfino di predirne il decorso. La quantità di simili dati aumenta di settimana in settimana ed ecco perché la loro analisi necessita dello sviluppo di algoritmi sempre più performanti rispetto agli esistenti e dunque basati su processi di machine learning.  Per quanto non vi sia un’area in cui non esista la possibilità di applicare un’analisi di tipo statistico sul rischio di sviluppare una malattia, ci sono settori in cui attualmente si investe di più: l’area oncologica con l’identificazione di markers precoci, le malattie cardiovascolari e quelle neurodegenerative. E grandi investimenti sono dedicati, più che alla medicina predittiva, a individuare uno stile di vita predittivo, uno cioè che tramite la nutrigenomica e la nutraceutica riduca le complicanze legate a obesità e sovrappeso, due patologie che nel mondo occidentale sono molto diffuse. Certo, questo sistema di elaborazione dei dati ha un costo, ma si tratta di un onere meno rilevante per qualunque sistema sanitario. Piuttosto, il punto critico di questo data mining sta nella necessità e imprescindibilità dell’elemento umano. La diagnosi da tempo è un esercizio multidisciplinare, compiuto insieme da biologi, statistici, bioinformatici. Lo abbiamo verificato anche nel corso della recente pandemia da Covid-19: i sistemi basati sull’Intelligenza Artificiale hanno funzionato nel richiamare l’allerta soltanto se e quando sono stati affiancati al lavoro di esperti. Per esempio, dopo alcune segnalazioni effettuate da HealthMap, un sistema automatico di ricerca, filtro, analisi e visualizzazione di fonti disparate su scoppi epidemici, circa sette casi di polmoniti sospette a Wuhan, sono stati epidemiologi particolarmente attenti, come la newyorchese Marjorie Pollack, a riscontrare un’analogia con l’epidemia di Sars nel 2003. Perciò, come ha spiegato Matthew Biggerstaff, epidemiologo presso i Centri statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie (CDC), l’IA non deve sostituire il «monitoraggio tradizionale della salute pubblica, ma potrebbe essere un valido strumento per coadiuvare l’azione umana».
Eppure, in Italia registriamo un grave ritardo nella formazione della nostra classe medica: i futuri specialisti devono acquisire gli strumenti per capire i risultati elaborati dagli algoritmi e dialogare con esperti di IA per sapere come interrogare i dati a disposizione. Il vero costo di un impianto diagnostico e di cura basato sulla lettura dei dati sta nel training del personale medico e bioinformatico addetto a decifrare simili dati all’interno di un modello di assistenza sanitaria prossimo venturo che è stato denominato hub and spoke (letteralmente “mozzo e raggi, ndr”). Si tratta di un modello organizzativo, preso in prestito dall’aviazione civile americana, che parte dal presupposto secondo il quale determinate condizioni e malattie complesse necessitano di competenze specialistiche e costose, che non possono essere assicurate in modo diffuso e capillare su tutto il territorio. Per questo motivo tale organizzazione prevede la concentrazione della casistica più complessa in un limitato numero di sedi Hub (centri di eccellenza) mentre nei centri periferici Spoke, vengono inviate le persone che hanno superato una certa soglia di complessità all’interno del loro quadro clinico. Il futuro della medicina, infatti, deve tenere conto della sostenibilità economica di un sistema in cui, a fronte di dati sempre più numerosi e a diagnosi sempre più complesse, perché relative a una popolazione sempre più anziana, la precocità della diagnosi e soprattutto la prevenzione della malattia contribuiranno a contenere i costi pur assicurando una buona qualità di vita ai cittadini il più a lungo possibile.

 

Fonte: Changes. Il magazine del Gruppo Unipol

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