È quasi certo che SARS-CoV-2, come altri virus di nuova emergenza, sia arrivato alla specie umana dalle colonie di pipistrelli (in particolare i “ferro di cavallo” del genere Rhinolophus) che pullulano nelle grotte della Cina continentale e, in generale, del Sud-Est asiatico. Se l’ospite intermedio sia stato qualche animale “commestibile” venduto nei wet market cittadini, oppure un laboratorio di virologia di Wuhan, però, non è stato né provato né escluso in via definitiva. Sono queste, in estrema sintesi, le conclusioni provvisorie del rapporto di 300 pagine dell’OMS reso pubblico in questi giorni.

L’indagine sull’origine dell’epidemia, condotta dal 14 gennaio al 10 febbraio di quest’anno da un gruppo multidisciplinare di 17 esperti provenienti da Australia, Danimarca, Germania, Giappone, Kenya, Olanda, Russia, Qatar, Gran Bretagna, USA e Vietnam, affiancati da 17 esperti cinesi, non è destinato a esaurirsi con questo rapporto. Proseguirà, come ha affermato il responsabile del gruppo internazionale, Peter Ben Embarek, sia in considerazione del ruolo del commercio di animali vivi e morti in precedenti casi di zoonosi, sia perché il direttore dell’OMS in persona, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha chiesto ulteriori indagini sulla sicurezza dei laboratori cinesi: «Questa relazione è un inizio molto importante, ma non è la fine: tutte le ipotesi sono ancora sul tavolo».

Sulla base di dati epidemiologici (esami di laboratorio, diagnostica per immagini, consumo di farmaci ed eccesso di mortalità), gli esperti dell’OMS datano i primi casi di Covid-19 al novembre-dicembre 2019 e li situano in Cina, nella provincia dell’Hubei, reputando che gli studi su una presunta circolazione del virus in Italia o in Brasile in mesi antecedenti abbiano identificato erroneamente il SARS-CoV-2 per via di sequenze genomiche incomplete. La commissione d’inchiesta internazionale ha preso in considerazione quattro possibili scenari, dai quali prendere le mosse:

  • la trasmissione zoonotica diretta dall’animale all’uomo (spillover)
  • il passaggio per un ospite intermedio seguito da spillover
  • l’introduzione del virus nella comunità attraverso la catena del freddo di conservazione dei cibi
  • l’introduzione del virus nella comunità per un incidente di laboratorio

Per ognuna di queste ipotesi, gli esperti hanno soppesato i risultati degli studi di letteratura esistenti e gli argomenti a favore e contro e hanno convenuto che lo spillover diretto era qualificabile come “da possibile a probabile”, il salto di specie mediato da altro mammifero “da probabile a molto probabile”, la trasmissione tramite cibo surgelato solo “possibile” e l’incidente di laboratorio “estremamente improbabile”.

Quando, all’inizio del 2020, è apparso chiaro che i casi di polmonite atipica che si susseguivano a Wuhan avevano un’origine infettiva comune, i ricercatori cinesi hanno sequenziato il virus implicato trovando in alcuni casi, ma non in tutti, un genoma uguale a quello del virus isolato da un migliaio di campioni prelevati da gabbie, maniglie delle porte e servizi igienici del mercato di Huanan.

La non totale coincidenza della genetica virale lascia spazio ad altre ipotesi: il virus potrebbe aver infettato gli animali non solo nel mercato, ma anche nelle fattorie che al mercato vendono il bestiame da macello, termine che comprende, oltre a pollame e conigli, tassi, procioni, salamandre giganti, coccodrilli e altro ancora, oppure essere stato veicolato con la catena del freddo, di surgelazione dei cibi.

Il primo contenzioso è proprio inerente la vendita di selvatici vivi per uso alimentare (si ricorda che la FAO, Food and Agriculture Organization delle Nazioni Unite, ha partecipato agli studi in qualità di osservatrice): essendo ufficialmente proibita, secondo le autorità, essa non è che una leggenda metropolitana montata dai media.

Per la minoranza di scienziati occidentali che ancora sospetta una provenienza più o meno accidentale da laboratorio, si allunga l’ombra del pervasivo governo cinese anche sull’attendibilità delle assicurazioni di chi lavora nell’istituto virologico di Wuhan (cui, invece, il team internazionale si è sentito di dar credito): il monitoraggio della salute non solo fisica, ma anche mentale del personale è costante (e nessuno ha anticorpi contro SARS-CoV-2) e nel periodo d’esordio dell’epidemia non erano in corso ricerche sui coronavirus.

Sull’accettazione globale delle conclusioni dei 17 esperti in missione pesa sicuramente anche la condizione in cui gli incaricati dall’OMS si sono trovati a lavorare nei loro 28 giorni in Cina: i primi 14 li hanno passati in quarantena, comunicando solo online con i referenti locali, e le successive due settimane hanno dovuto programmare in anticipo tutte le visite (a ospedali, laboratori, centri trasfusionali) e gli incontri (con giornalisti, autorità responsabili dei mercati e dell’agricoltura) per ottemperare alle disposizioni di cautela sanitaria.

Forse per rivendicare il loro diritto alla chiarezza sulla fonte del flagello che ha colpito il mondo intero e, di certo, per sottolineare la loro sfiducia nella trasparenza cinese, i governi di Stati Uniti, Australia, Canada, Danimarca, Cechia, Estonia, Israele, Lettonia, Lituania, Giappone, Norvegia, Corea del sud, Slovenia e Gran Bretagna hanno sottoscritto una dichiarazione congiunta in cui, dopo la rituale professione di fede nella bontà e importanza del lavoro dall’OMS, dichiarano la forte preoccupazione per il peso sui risultati del grave ritardo con cui è stato svolto e del mancato accesso ai dati e ai campioni biologici originali e auspicano una seconda fase di studi più completi e liberi da condizionamenti che portino a conoscenze utili a tutta la comunità internazionale. Tuttavia, il clima geopolitico generale non pare favorevole alla sua realizzazione.

 

FonteScienza in Rete

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