In Italia le centrali idroelettriche soddisfano una quota significativa del fabbisogno elettrico nazionale e sono la principale fonte rinnovabile di energia, oltre ad avere un ruolo nella regimazione idrica. Ma buona parte degli impianti avrebbe urgente bisogno di manutenzione e ammodernamento, un problema sottovalutato anche dal PNRR.

È la fonte di energia rinnovabile più antica, più rodata e più efficiente. Fin dai suoi albori l’umanità ha sfruttato l’acqua per irrigare le colture ma anche per ricavare forza lavoro attraverso mulini, viti di Archimede e, più tardi, turbine con cui generare elettricità. Eppure, nella corsa alla transizione alle fonti di energia rinnovabile e alla decarbonizzazione del settore elettrico, l’idroelettrico quasi non compare, sopravanzato in termini di investimenti da solare, eolico e perfino idrogeno.

Come ha sottolineato l’Agenzia internazionale dell’energia, che lo ha definito “il gigante dimenticato” della transizione energetica, l’idroelettrico rappresenta la spina dorsale della produzione rinnovabile di elettricità, fornendone quasi la metà in tutto il mondo. Il contributo dell’energia idroelettrica è del 55 per cento superiore a quello del nucleare e maggiore della somma di tutte le altre fonti rinnovabili. Nel 2020 ha fornito un sesto della produzione globale di elettricità, piazzandosi come terza fonte dopo carbone e gas naturale. Negli ultimi vent’anni, grazie soprattutto agli investimenti compiuti dalla Cina nei paesi a basso e medio reddito, la capacità totale dell’energia idroelettrica è aumentata del 70 per cento a livello globale, ma la sua quota sul totale della produzione è rimasta stabile a causa della crescita dell’eolico, del solare fotovoltaico, del carbone e del gas naturale.

Le centrali idroelettriche contribuiscono in modo determinante alla flessibilità e alla sicurezza del settore elettrico, anche perché possono aumentare e diminuire la produzione di elettricità ben più rapidamente delle centrali nucleari, a carbone o a gas. Questa caratteristica consente loro di adattarsi rapidamente ai cambiamenti della domanda e di compensare le fluttuazioni dell’offerta da altre fonti, integrando per esempio la produzione elettrica di solare ed eolico che può variare notevolmente durante il giorno. Perché dunque l’Occidente le trascura?

La produzione in Italia

Nel nostro paese la storia dell’idroelettrico è strettamente legata a quella dello sviluppo economico. “L’industria italiana è sorta lungo i fiumi o ai piedi delle dighe poiché fino agli anni sessanta del secolo scorso, quando Mattei iniziò a importare il gas, l’idroelettrico era l’unica energia scalabile a disposizione”, premette Giulio Boccaletti, ricercatore associato onorario alla Smith School of Enterprise and the Environment dell’Università di Oxford e autore del saggio Acqua.Una biografia (Mondadori, 2022). Per questa ragione, il parco elettrico nazionale è storicamente caratterizzato da una notevole diffusione di impianti idroelettrici – concentrati lungo l’arco alpino – che garantisce tuttora una componente importante del nostro paniere energetico.

La Centrale idroelettrica di Trezzo sull’Adda fu costruita tra il 1904 e 1906 per fornire energia a un cotonificio del luogo e alle famiglie che abitavano nel vicino villaggio operaio

Tuttavia negli anni più recenti la potenza installata di questi impianti è rimasta pressoché costante, mentre quella delle altre fonti rinnovabili – in particolare l’eolico e il solare – è cresciuta a ritmi sostenuti, sospinta da diversi sistemi pubblici di incentivazione. Secondo il più recente rapporto pubblicato dal Gestore dei servizi energetici, relativo al 2020, la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili è stata di 116,9 TWh, pari al 42,2 per cento della produzione complessiva e al 38,1 per cento del consumo interno lordo. Tra le energie verdi, la fonte principale rimane proprio quella idroelettrica (47,552 TWh, pari al 41 per cento della produzione complessiva) a cui seguono solare (21 per cento), bioenergie (17 per cento), eolica (16 per cento) e geotermia (5 per cento).

Alla fine del 2020 risultavano in esercizio 4503 impianti idroelettrici, la maggioranza dei quali di piccole o piccolissime dimensioni: gli impianti di potenza complessiva inferiore a 1 MW erano ben 3271 ma hanno generato appena il sette per cento della produzione idroelettrica complessiva. La parte del leone è interpretata da appena 310 grandi impianti con potenza maggiore di 10 MW che, nel loro insieme, producono il 74 per cento.

La necessità di rinnovamento

La maggioranza delle grandi dighe d’Italia è però datata, disperatamente bisognosa di manutenzione e ammodernamento. L’urgenza degli interventi è emersa con forza anche al tavolo di settore tenutosi nell’aprile del 2022, durante il quale è stato sottolineato come più del 70 per cento degli impianti idroelettrici in Italia ha oltre 40 anni e l’86 per cento delle concessioni delle grandi derivazioni idroelettriche è già scaduto o scadrà entro il 2029.

Quello delle concessioni è un tema cruciale per il rinnovamento del grande idroelettrico nazionale poiché l’entità degli investimenti è proporzionale alla dimensione degli impianti. La durata delle concessioni idroelettriche nel nostro paese è tra le più brevi in Europa, con un minimo di 20 e un massimo di 40 anni. A confronto, in altre nazioni come Francia, Portogallo e Spagna esse si estendono fino a 75 anni, permettendo agli operatori di spalmare su un tempo più lungo i costi della costruzione e delle operazioni di manutenzione e ammodernamento.

 

Il campanile della vecchia chiesa cittadina di Curon sommerso nelle acque del lago di Resia. L’antica chiesa e il villaggio sono stati sommersi nel 1950 in un lago artificiale creato per alimentare una centrale idroelettrica

La disomogeneità nelle discipline regionali scoraggia ulteriormente gli investitori, che spesso ripiegano su una miriade di impianti più piccoli per i quali è più semplice ottenere l’autorizzazione. A discapito della produzione di elettricità e della salvaguardia ambientale poiché, nel caso dell’idroelettrico, non vale quasi mai l’adagio del “piccolo ma bello”: a parità di potenza installata, l’impatto ambientale di una sola grande diga è quasi sempre inferiore alla somma degli impatti di centinaia di centraline microidroelettriche.

Ovviamente, nemmeno il grande idroelettrico è privo di difetti: “La perfezione non esiste, si tratta piuttosto di scelte da compiere sul territorio. Anche se le grandi dighe, in generale, possono avere nel complesso un impatto minore di tante piccole, esse regolano il fiume in maniera più aggressiva. In altre parole, un grande invaso trasforma un fiume in un canale”, riprende Boccaletti, ricordando inoltre che gli invasi fungono da bioreattori. “Spesso si verificano emissioni di metano associate alla decomposizione anaerobica di materiale organico che finisce negli invasi. Sebbene siano ben più ridotte rispetto a quelle rilasciate nella combustione degli idrocarburi fossili, nemmeno l’idroelettrico è esattamente a zero emissioni.”

Questi elementi contribuiscono a spiegare perché la resistenza verso l’idroelettrico sia più forte rispetto alle altre fonti rinnovabili. “Attenzione però ad affrettare la valutazione senza la necessaria prospettiva storica: solare ed eolico esistono da molto meno tempo dell’idroelettrico. Scalando gli impianti, presto scopriremo che anch’essi hanno impatti significativi”, aggiunge l’esperto.

L’idroelettrico nel PNRR

Gli investimenti di cui necessita il grande idroelettrico non arriveranno purtroppo dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR). Infatti, all’interno delle 273 pagine del documento, i riferimenti espliciti all’idroelettrico sono appena tre. Il primo riguarda le riforme abilitanti, e in particolare quelle rivolte alla promozione della concorrenza: “In materia di concessioni di grande derivazione idroelettrica, occorre modificare la relativa disciplina al fine di favorire, secondo criteri omogenei, l’assegnazione trasparente e competitiva delle concessioni medesime, anche eliminando o riducendo le previsioni di proroga o di rinnovo automatico, soprattutto nella prospettiva di stimolare nuovi investimenti”.

Come da aspettative, il secondo e il terzo riferimento si trovano nella Missione 2, “Rivoluzione verde e transizione ecologica”, ma, a sorpresa, non nella componente 2, dedicata alle energie rinnovabili. Possibili investimenti sui microimpianti idroelettrici compaiono infatti all’interno della componente 1, destinata ad agricoltura sostenibile ed economia circolare, come parte integrante dello “sviluppo sostenibile e resiliente di territori rurali e di montagna che intendano sfruttare in modo equilibrato le risorse principali di cui dispongono”.

La diga delle Tre Gole, in Cina, fornisce il tre per cento circe del fabbisogno elettrico del paese

Sono le celebri green communities, ovvero 30 comunità locali che saranno supportate nella realizzazione di “piani di sviluppo sostenibili dal punto di vista energetico, ambientale, economico e sociale”. Per questi laboratori a cielo aperto di sviluppo integrato sono previsti finanziamenti per 200 milioni complessivi dei 5,27 miliardi stanziati per la componente 1.

Il terzo e ultimo riferimento al gigante dimenticato riguarda la componente 4, “tutela del territorio della risorsa idrica”, a cui sono stati assegnati 15,05 miliardi. Questi investimenti mirano a garantire la sicurezza, l’approvvigionamento e la gestione sostenibile delle risorse idriche lungo l’intero ciclo, “andando ad agire attraverso una manutenzione straordinaria sugli invasi e completando i grandi schemi idrici ancora incompiuti, migliorando lo stato di qualità ecologica e chimica dell’acqua, la gestione a livello di bacino e l’allocazione efficiente della risorsa idrica tra i vari usi/settori (urbano, agricoltura, idroelettrico, industriale)”.

L’incognita climatica

“È bene chiarirlo: producendo elettricità in continuo, l’idroelettrico non può essere rimpiazzato del tutto da solare ed eolico ma, allo stesso tempo, non potrà mai rappresentare la principale fonte di energia del nostro paese. La nostra capacità è già quasi completamente sfruttata. Ciò non toglie che servano investimenti per migliorare l’efficienza degli impianti esistenti intervenendo, a livello di infrastrutture, su turbine e generatori moderni”, premette Boccaletti, chiarendo tuttavia che questi interventi debbano andare di pari passo con il dragaggio degli invasi – circa la metà della capacità attuale è infatti interrata – e soprattutto con il cambiamento nella gestione della risorsa idrica e più in generale del territorio.

“La produzione di elettricità è solo una delle funzioni dell’idroelettrico. Gli invasi hanno anche la funzione di stoccaggio e di regimentazione idrica. Basti pensare che la più grande diga esistente, quella delle Tre gole in Cina, è stata costruita, prima di tutto, per controllare le inondazioni del Fiume Azzurro”, riprende l’esperto.

La diga sull’Adda, vicino a Olginate, in provincia di Lecco. Le dighe possono avere anche un’importante funzione di riserva e controllo delle acque

In un pianeta che si riscalda rapidamente, e che proprio nel Mediterraneo trova uno dei punti più vulnerabili al cambiamento, l’Italia sarà presto costretta a fare i conti con una disponibilità di acqua sempre più capricciosa. “Con il cambiamento climatico l’Italia potrebbe perdere, in alcune regioni, il 10-15 per cento delle precipitazioni, ma rimane una nazione ricca d’acqua. Piuttosto, sono preoccupato dalla narrazione fin troppo tranquilla sulla gestione delle risorse idriche. La nostra agricoltura non è pensata per il clima a cui stiamo andando incontro. Di certo, dobbiamo rassegnarci al cambiamento del paesaggio: senza spingerci al 2100, le colture che richiedono enormi quantità d’acqua, come il riso, potrebbero scomparire in un paio di decenni. Inoltre, saremo costretti ad abbandonare le attuali tecniche di irrigazione per adottarne di più efficienti”, riprende Boccaletti.

Insomma, la siccità diventa scarsità quando gestiamo male l’acqua che pure ci sarebbe. Come dimostra, drammaticamente, l’emergenza idrica che questa estate ha messo in ginocchio il Nord Italia. “La carenza di invasi è solo un esempio delle opere necessarie. La realtà è che il territorio e l’intero tessuto produttivo dell’Italia non sono adeguati allo scenario climatico dei prossimi 30 anni. Quella che ci aspetta è una trasformazione epocale che assorbirà risorse di gran lunga maggiori di quelle stanziate con l’intero PNRR” nota l’esperto, concludendo con una riflessione agrodolce: “In qualche modo l’Italia finirà per trovare le risorse necessarie, anche se probabilmente dovremo aspettare una classe politica diversa, intenzionata ad affrontare in concreto il problema. La questione però non riguarda solo il nostro paese. Con ogni probabilità, ciò che avverrà in Nord Africa avrà conseguenze sociali anche in Italia”.

 

Fonte: Le Scienze

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