La luce del Sole può inattivare il coronavirus. E lo fa a una velocità elevatissima: fino a otto volte superiore a quella stimata finora. A raccontarlo è un team di ricercatori coordinato dall’Università della California a Santa Barbara che ha dimostrato come il coronavirus sia più vulnerabile alla luce solare di quanto previsto dai modelli teorici e che questa differenza nei tempi di inattivazione delle particelle virali da parte della radiazione Uv-B potrebbe essere spiegata con l’interazione dei raggi Uv-A e le droplets. Lo studio è stato pubblicato sulle pagine del Journal of Infectious Diseases.

Secondo recenti modelli teorici, infatti, l’inattivazione del coronavirus avviene tramite i raggi Uv-B, ultravioletti con una lunghezza d’onda media, che colpiscono l’rna, danneggiandolo. “Ma la discrepanza appena osservata suggerisce che sta succedendo qualcosa di più e capire cosa sia può essere utile per riuscire a tenere sotto controllo il virus”, spiega Paolo Luzzatto-Fegiz, tra gli autori dello studio, suggerendo quindi che i raggi Uv-B non siano i soli ad entrare in gioco. La luce Uv, ricordiamo non è sempre uguale: le onde Uv più lunghe, chiamate Uv-A, non hanno abbastanza energia per creare disturbi, mentre le onde Uv-B sono le principali responsabili dell’eliminazione di patogeni e dell’esposizione delle nostre cellule al rischio dei danni solari. Infine, la radiazione Uv-C, l’onda più corta, si è dimostrata efficace contro i virus come il Sars-Cov-2, anche questa non arriva fino a noi, sulla superficie terrestre, perché viene bloccata dall’atmosfera, e in particolare dall’ozono.

Lo scorso anno, uno studio pubblicato sul Journal of Infectious Diseases aveva esaminato in laboratorio gli effetti della luce Uv sul coronavirus, dimostrando che i tempi di inattivazione di aggiravano intorno ai 10-20 minuti di esposizione. Confrontando questi risultati con una recente teoria descritta in un studio del Dipartimento della Difesa statunitense, Luzzatto-Fegiz e il suo team hanno visto che i conti non tornavano. Questa teoria, infatti, prevedeva che i raggi Uv-B interagissero con l’rna virale, distruggendolo, in un processo molto più lento di quello osservato sperimentalmente. Tanto per rendersi conto, il coronavirus è risultato tre volte più sensibile ai raggi Uv rispetto all’influenza A, e, spiegano i ricercatori, il 90% delle particelle virali possono essere inattivate dopo mezz’ora di esposizione alla luce solare di un mezzogiorno estivo.

“L’inattivazione osservata sperimentalmente nella saliva è oltre otto volte più veloce di quanto ci si sarebbe aspettato dal modello teorico”, continua l’autore. I ricercatori hanno così suggerito una possibile spiegazione a così tanta differenza, ipotizzando che anche gli Uv-A possano svolgere un ruolo. “Molti pensano che la radiazione Uv-A non abbia un grande effetto, ma potrebbe interagire con alcune delle molecole nel mezzo (la saliva, ndr)”, spiega il ricercatori, precisando che quelle molecole reattive a loro volta potrebbero interagire con il virus, accelerando l’inattivazione. Se confermato, i raggi Uv-A possono essere sfruttati per aiutarci a gestire meglio il coronavirus e tornare utili per migliorare la sterilizzazione di ambienti con un maggior rischio di contagio. “La nostra analisi indica la necessità di ulteriori esperimenti per testare separatamente gli effetti delle specifiche lunghezze d’onda della luce”, conclude Luzzatto-Fegiz.

 

FonteGalileo

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