In quale misura gli anticorpi prodotti in precedenti infezioni da CoViD-19 o grazie ai vaccini, ci proteggeranno dalle nuove varianti di SARS-CoV-2? Al momento non è possibile rispondere in modo certo, e si ipotizza che i vaccini anti-covid andranno periodicamente aggiornati. Ma dagli studi che stanno monitorando l’evoluzione nel tempo degli anticorpi sviluppati contro il SARS-CoV-2 emergono segnali rassicuranti. Certo, il virus muta, ma il nostro sistema immunitario non resta fermo a guardare.

Come spiegato in un articolo su The Conversation, diverse ricerche hanno messo a confronto l’efficienza degli anticorpi prodotti da una recente infezione da SARS-CoV-2 e di quelli più “maturi” presenti nello stesso organismo sei mesi dopo. Come sappiamo, la quantità di anticorpi neutralizzanti indirizzati al patogeno diminuisce con il passare dei mesi, perché non c’è più un’infezione in corso: per questa ragione è importante che anche chi è già guarito dalla covid venga vaccinato. Ma i pochi anticorpi presenti a sei mesi dalla prima infezione sembrano essere cambiati, e in meglio.

POCHI MA BUONI. Uno studio che ha messo alla prova l’abilità degli anticorpi maturi nel legarsi alle proteine riconoscibili delle nuove varianti di SARS-CoV-2 ha trovato che l’83% di essi è più capace di riconoscerle. E un altro lavoro ancora in attesa di revisione dimostrerebbe che alcuni anticorpi presenti nell’organismo a sei mesi dall’infezione originaria iniziano a essere in grado di riconoscere coronavirus diversi ma imparentati, come quello all’origine della SARS. Com’è possibile?

LAVORI IN CORSO. La ragione è da cercare nei linfociti B, le cellule immunitarie deputate alla produzione di anticorpi contro uno specifico antigene (proteina virale) e, in alcuni casi, capaci di evolversi in linfociti B della memoria: questi ultimi sono cellule in grado di sopravvivere a lungo nell’organismo e di riattivare rapidamente una risposta immunitaria, qualora si dovesse ripresentare l’antigene incriminato.

Dopo l’attivazione con la prima infezione, i linfociti B continuano ad evolvere, e possono approfittare di questo processo per organizzare una risposta immunitaria sempre più precisa.

A differenza di quelle dei virus, le mutazioni degli anticorpi non sono del tutto casuali, ma dirette da un enzima che si trova soltanto nelle cellule B (la deaminasi indotta dall’attivazione, AID). Il compito di questo enzima è proprio causare mutazioni nel DNA responsabile di codificare la parte degli anticorpi capace di riconoscere il virus, il cosiddetto “sito di legame”.

Alcune di queste mutazioni migliorano la capacità degli anticorpi di legarsi al virus-bersaglio, altre la peggiorano, altre ancora non hanno effetto: ma alle cellule B che possiedono le mutazioni più vantaggiose in questi siti vengono dati segnali positivi che ne causano una replicazione più veloce. In questo modo, attraverso successivi processi di selezione naturale, l’affinità tra gli anticorpi e la proteina virale da prendere di mira migliora nel tempo.

PIÙ PREPARATI. Poiché tipicamente l’infezione da covid dura un paio di settimane, la prima ondata di anticorpi non ha avuto tempo a sufficienza per sviluppare questa affinità. Ma anche dopo la guarigione nell’organismo permangono frammenti non infettivi del virus: le cellule B continuano così ad avere davanti un “promemoria” di come è fatto il patogeno, e a migliorarsi con il tempo. Questo processo di evoluzione continua per diversi mesi, e se una persona sarà nuovamente infettata, ad attendere il virus ci saranno anticorpi con una capacità di legame all’antigene superiore.

Quanto osservato vale anche per la risposta immunitaria indotta dal vaccino, che presenta all’organismo le istruzioni per produrre l’antigene del virus (e non il virus!). Dopo la prima vaccinazione inizia il processo di progressiva selezione degli anticorpi più efficienti. In caso di un futuro incontro con il SARS-CoV-2, quell’organismo avrà pronte schierate le sue difese migliori.

 

FonteFocus

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