Il disgelo del permafrost sta riportando in vita microrganismi che producono metano. Quale può essere il loro contributo al rilascio di questo gas serra è ancora ignoto, ma potrebbe essere enorme. Per scoprirlo, alcuni gruppi di ricerca stanno studiando l’ecologia di questo ambiente inospitale e i rapporti fra l’ampia gamma di batteri, archea e virus che lo abitano.

Il prossimo maggio, quando nella Svezia settentrionale le temperature cominceranno a risalire di diversi gradi sopra lo zero, un gruppo di ricercatori tornerà a inoltrarsi nel pantano della torbiera di Stordalen, camminando su cascanti passerelle di legno oltre gruppi di scatole di plexiglass trasparente che sbucano tra i pennacchi dell’erioforo.

Durante la breve stagione vegetativa della torbiera, ogni tre ore i coperchi di quelle scatole si chiuderanno e le scatole si riempiranno di metano, un gas serra molto potente che fuoriesce dal terreno. Dopo 15 minuti, il gas sarà aspirato attraverso un labirinto di tubi fino a un caravan parcheggiato poco distante, dove sarà analizzato. Nel frattempo i ricercatori dovranno fare un lavoro più sporco: infilare delle aste di metallo nel fango melmoso ed estrarne campioni da portare in laboratorio. Qui poi studieranno i microrganismi produttori di metano, sequenziandone il genoma.

Esistono anche altre iniziative per studiare i microrganismi presenti nel permafrost, ma questo progetto, chiamato IsoGenie, è uno degli studi sul campo più ampi e duraturi del settore. “Mettiamo insieme misure geochimiche ed ecologia microbica, due cose che fanno parte di aree completamente diverse, per trovare qualcosa di nuovo”, spiega Scott Saleska, ecologo all’Università dell’Arizona a Tucson e cofondatore del progetto.

Fino a qualche decina di anni fa la torbiera di Stordalen era coperta dal permafrost. Oggi invece, con l’aumento delle temperature globali, è diventata in gran parte un complesso mosaico di paludi e acquitrini erbosi dove rimangono rilievi chiamati palse, nei quali il permafrost permane, parzialmente isolato nella torba secca. A mano a mano che le palse si scongelano, gli scienziati vogliono documentare i cambiamenti nelle comunità microbiche al loro interno.

Per gran parte della storia dell’umanità, il permafrost è stato il maggior pozzo di assorbimento del carbonio della Terra, conservando per secoli nel ghiaccio varie materie vegetali e animali. Attualmente immagazzina circa 1600 miliardi di tonnellate di carbonio, oltre il doppio di quanto ce n’è nell’atmosfera. Ma con l’aumento delle temperature il permafrost si sta frantumando e gradualmente scompare, lasciandosi alle spalle un panorama drasticamente cambiato.

Tra gli scienziati aumenta sempre più il timore che questo disgelo diventi una vera festa per batteri e archea produttori di anidride carbonica e metano. E anche se i modelli climatici tengono da tempo in considerazione le potenziali emissioni di carbonio del permafrost e dei laghi artici, l’attività microbica al loro interno è sempre stata considerata una scatola nera, un valore che cambia in base alle proprietà fisiche dell’ecosistema, come la temperatura e l’umidità. Ma questo è problematico, afferma Carmody McCalley, biogeochimico al Rochester Institute of Technology di New York. “Se il modello non coglie bene il meccanismo, probabilmente non sarà granché utile per fare previsioni”, spiega.

Grazie all’impegno di alcuni ricercatori per studiare più attentamente gli organismi che vivono in questi ambienti, si stanno iniziando a raccogliere risultati. L’identità dei microrganismi dominanti nel permafrost di transizione è rilevante, per esempio, per i tipi di gas serra emessi. Le profondità dei laghi artici sono forse più sensibili ai cambiamenti climatici di quanto si pensasse, a causa dei tipi di microrganismi presenti al loro interno. Inoltre la disponibilità di ferro e di altre sostanze nutritive nel suolo potrebbe accelerare la produzione di gas serra in alcune località.

Ci sono ancora cose che non sappiamo su come cambierà il panorama in risposta al riscaldamento climatico, e ci sono molte domande senza risposta, per esempio sul ruolo dei virus nel terreno, ma la raccolta di dati sui microrganismi sta portando a una visione più olistica della situazione. “Ci permette di guardare dentro la scatola nera”, afferma Virginia Rich, microbiologa alla Ohio State University a Columbus e seconda cofondatrice di IsoGenie. “Per il permafrost questo è un bisogno molto urgente, perché questi sistemi si stanno sciogliendo davanti ai nostri occhi.”

Una lunga storia
I progetti di ricerca che studiano i microrganismi nel permafrost in fase di scongelamento sono diversi. Alcuni, come l’Alaska Peatland Experiment sovvenzionato dalla US National Science Foundation (NSF), studiano le comunità microbiche in ambienti simili al terreno ricco di carbonio che si trova a Stordalen. Un altro progetto di ampio respiro è il Next-Generation Ecosystem Experiment – Arctic, finanziato dallo US Department of Energy, che studia il terreno ricco di minerali del North Slope in Alaska, nei pressi di Utqiagvik (la località che in passato si chiamava Barrow). L’esercito statunitense porta avanti ricerche sui cambiamenti nelle comunità microbiche all’interno del Permafrost Tunnel, un vano di 110 metri scavato nel terreno ghiacciato di una collina nei pressi di Fairbanks.

Tra gli altri impegni di ampia portata c’è il Center for Permafrost dell’Università di Copenaghen, che effettua analisi metagenomiche su campioni di terreno prelevati in varie località in Groenlandia, Russia, Svezia e nelle Svalbard. Ricordiamo anche un lavoro congiunto portato avanti da ricercatori russi e statunitensi in Siberia nordorientale, che paragona le comunità microbiche in campioni di permafrost di varie epoche, da qualche migliaio a qualche milione di anni fa. Questi ricercatori hanno trovato nel permafrost intatto cianobatteri e microalghe che una volta scongelati possono tornare attivi.

La torbiera di Stordalen è uno dei luoghi più studiati della regione artica e da più di un secolo si raccolgono informazioni dettagliate su temperatura, composizione del suolo e comunità vegetali al suo interno.

Bo Svensson, microbiologo dell’Università di Linköping in Svezia, fu uno dei primi ricercatori a misurare la quantità di metano emesso dal suolo, negli anni settanta. Catturava il gas con secchi e barattoli di caffè e doveva passare ore nella torbiera, difendendosi da mosche e zanzare con un denso repellente all’olio di catrame che aveva comprato dalla comunità Sami locale. All’epoca non c’erano servizi né elettricità e spesso Svensson doveva percorrere a piedi i 10 chilometri e più fino alla Abisko Scientific Research Station, portando nello zaino le siringhe piene di gas e il resto dell’attrezzatura.

Oggi, in mezzo all’attrezzatura più moderna, nella torbiera si vede ancora uno dei barattoli di caffè arrugginiti di Svensson, simbolo tangibile di tutti i progressi compiuti dalla scienza. “La torbiera di Stordalen è diventata un centro internazionale”, commenta il microbiologo. La posizione proprio sul fronte del disgelo ne ha fatto un luogo di ricerca ambito per chi si interessa ai cambiamenti climatici. L’arrivo dell’elettricità e di una strada di accesso aperta negli anni ottanta non hanno guastato.

Nel 2010 il lancio del progetto IsoGenie ha portato a Stordalen una nuova serie di strumenti di biologia molecolare. Il progetto, finanziato dallo US Department of Energy, è stato avviato da Rich, che ha sviluppato tecniche per il campionamento del DNA ambientale per studiare i microrganismi degli oceani, e da Saleska, che ha creato sistemi laser per misurare le concentrazioni di gas residui. Negli ultimi dieci anni IsoGenie ha riunito ricercatori di tutta una serie di discipline diverse e ha accumulato una quantità enorme di dati.

Fino a non molto tempo fa per scoprire qualcosa sui microrganismi sarebbe stato necessario farli sviluppare in coltura in laboratorio, invece oggi è sempre più comune effettuare il campionamento e il sequenziamento del genoma di campioni ambientali e usare l’analisi metagenomica per ricostruire le comunità presenti nel terreno, negli oceani, nei laghi eccetera. I ricercatori possono non solo identificare le specie presenti, ma anche vedere quali geni sono attivi, e ciò permette di avere un’immagine approfondita delle strategie metaboliche in atto e delle relazioni tra i diversi microrganismi.

Rich stima che il suo gruppo di ricerca abbia raccolto i genomi di 13.000 microrganismi che vivono nel terreno nella torbiera di Stordalen. Si tratta di una comunità vasta, che abbraccia tutto l’albero genealogico dei microrganismi e comprende un nuovo ordine di archea produttori di metano, appena scoperto, e 15.000 virus attivi nel terreno, che si suppone infettino i batteri che ci vivono. È un vero tesoro di nuove informazioni sulla produzione del metano.

Produttori di metano
La prima grossa scoperta è arrivata nel 2014, quando il gruppo di ricerca ha dimostrato che i diversi elementi della torbiera contengono comunità microbiche diverse che producono metano a ritmi diversi. Per esempio, nelle zone fangose parzialmente scongelate la maggior parte dei microrganismi produce metano attraverso un processo chiamato metanogenesi idrogenotrofica, che consuma anidride carbonica e idrogeno. Invece negli acquitrini completamente scongelati la comunità microbica diventa più complessa e appaiono microrganismi che producono metano sfruttando un processo chiamato metanogenesi acetoclastica, che usa acido acetico e anidride carbonica. Rich sostiene che la differenza sia importante, perché i due processi rispondono diversamente a condizioni ambientali quali la temperatura e il pH.

La scoperta ha risvegliato il mondo scientifico, perché significa che le zone della torbiera che sono in fase più avanzata di scongelamento possono produrre più o meno metano a seconda delle condizioni ambientali e questo è un fattore importante da tenere in considerazione nei modelli usati per le previsioni. “Ciò che abbiamo dimostrato nel nostro articolo è che il tipo di metano prodotto cambia molto da un posto all’altro in base al grado di disgelo e a chi era presente”, afferma Saleska.

“È stato un passo avanti davvero enorme”, commenta Patrick Crill, biogeochimico all’Università di Stoccolma e collaboratore di IsoGenie. “Siamo riusciti a vedere un collegamento tra il paesaggio e il segnale biogeochimico che ne esce, tutto grazie alla genomica”. “Il fatto che siano riusciti a mettere insieme le informazioni dei microrganismi e integrarle nei modelli climatici è eccezionale”, afferma Ted Shuur, ecologo degli ecosistemi alla Northern Arizona University di Flagstaff.

Nelle zone profonde
Poi il gruppo di ricerca ha rivolto l’attenzione ai laghi artici. Secondo Ruth Varner, biogeochimica all’Università del New Hampshire a Durham e collaboratrice di IsoGenie, gli attuali tentativi di prevedere i cambiamenti climatici fanno poca attenzione alle possibili differenze tra le emissioni di metano in diverse zone di un lago. Si presume che le zone meno profonde, che nei mesi caldi si riscaldano più rapidamente, producano più metano rispetto a quelle più profonde, ma questa ipotesi non è mai stata messa alla prova.

Usando analisi metagenomiche e misurazioni delle emissioni di gas in due laghi della torbiera di Stordalen, Varner e i suoi colleghi hanno scoperto che forse è necessario rivedere questa ipotesi a lungo considerata corretta. In un lavoro ancora in attesa di peer review, hanno dimostrato che le comunità microbiche nelle zone più profonde dei laghi comprendono più microrganismi produttori di metano rispetto a quelle delle acque poco profonde. Inoltre questi microrganismi sono anche più sensibili all’aumento delle temperature. Di conseguenza, un leggero aumento delle temperature potrebbe causare un rilascio sproporzionato di metano dalla zona centrale del lago. Varner avverte che se le temperature globali continuano ad aumentare “riteniamo che dai laghi uscirà più metano di quello che ci si aspetta”.

Lo scorso settembre Varner e Rich hanno annunciato la prossima iniziativa, il progetto EMERGE, che sta per emergent ecosystem response to change (risposte emergenti degli ecosistemi al cambiamento). Il progetto, che ha ricevuto 12,5 milioni di dollari di finanziamento dalla NSF, riunisce 33 ricercatori di 15 discipline per portare avanti il lavoro di analisi metagenomica iniziato da IsoGenie. L’obiettivo è migliorare le conoscenze sull’evoluzione dei microrganismi in risposta ai cambiamenti climatici e anche sul ruolo dei virus.

Parte del progetto consisterà nel correlare varie comunità microbiche a elementi del paesaggio che si possano monitorare da remoto, come le piante. Definire questi collegamenti dovrebbe permettere ai ricercatori di usare immagini satellitari per creare una mappa dei microrganismi produttori di metano in tutta la regione artica.

Collegare le osservazioni fatte nella torbiera di Stordalen e in alcuni altri siti di ricerca nella regione artica alle riserve di carbonio presenti altrove nel permafrost non sarà facile. Le dimensioni, la varietà e l’isolamento di questi ambienti creano difficoltà ai ricercatori. In effetti si stima che quasi un terzo di tutte le ricerche condotte nella regione artica siano state fatte nel raggio di 50 chilometri da due soli siti: il centro di Abisko e il lago Toolik nel North Slope.

Mark Waldrop, ecologo dei microrganismi alla US Geological Survey di Menlo Park, in California, studia il permafrost dell’Alaska da più di dieci anni e ritiene che sia molto utile capire come funziona la microbiologia su scala locale e regionale in quella zona, ma sottolinea che ci sono ancora tante cose che non sappiamo su quello che succederà con il disgelo nei diversi habitat del permafrost nella regione artica. Per combattere questa distorsione dovuta all’origine dei campionamenti, Waldrop sta collaborando con la NASA per creare un database pan-artico più ampio possibile con i campioni di microrganismi del permafrost. L’ecologo spera di usare questo database per studiare le regioni di cui si hanno pochi campioni.

L’importanza dei modelli
Un’altra sfida sarà quella di capire come cambiano gli ambienti terrestri con il disgelo. Un luogo può diventare asciutto e roccioso se l’acqua è drenata, oppure può essere inondato e diventare paludoso; il destino specifico di ciascun luogo avrà un impatto notevole sulle comunità microbiche e le conseguenti emissioni, spiega Waldrop. Janet Jansson, ecologa dei microrganismi al Pacific Northwest National Laboratory di Richland, nello stato di Washington, conferma questa idea e sottolinea quanto sia importante identificare le specifiche firme microbiche nei vari ecosistemi.

Jansson ritiene che le conoscenze sui microrganismi saranno d’aiuto per creare modelli delle future emissioni di carbonio. “Sono loro le minuscole fabbriche che producono questi gas serra. E quindi ovviamente dobbiamo capire come funziona tutto il sistema. Non possiamo rimanere all’oscuro e dire che ci sono dei gas che vengono prodotti chissà come.”

Jansson è a capo di un gruppo di ricerca che studia le comunità microbiche in una regione bassa e piena di laghi nel North Slope. Qui il permafrost, congelandosi e scongelandosi ripetutamente, si spacca e si piega in formazioni geometriche chiamate poligoni da fratture termiche, che sono una combinazione di ghiaccio, torba e lago. In Alaska questo paesaggio eterogeneo copre circa il 20 per cento della regione. Negli ultimi dieci anni circa Jansson ha inserito nel suo lavoro l’analisi metagenomica e quella dei gas per capire le differenze di emissioni all’interno di questi habitat variegati. Nel 2015 il suo lavoro di analisi metagenomica ha portato a nuove conoscenze su come facciano i microrganismi a sopravvivere a lungo nel permafrost congelato e povero di sostanze nutritive. Con il suo gruppo di ricerca, Jansson ha scoperto geni che codificano proteine coinvolte nel metabolismo del ferro, il che suggerisce che i microrganismi usino questo minerale come fonte di energia per sopravvivere in quelle condizioni difficili.

Questa scoperta ha fatto luce su un meccanismo che in seguito si è dimostrato una strategia di sopravvivenza primaria per i microrganismi nel permafrost. E lo scorso dicembre i ricercatori della Abisko Research Station hanno dimostrato che la presenza di ferro nel momento in cui i microrganismi sono scongelati e si riattivano potrebbe accelerare il rilascio di anidride carbonica.

In futuro Jansson è interessata a studiare i virus che infettano molti di questi microrganismi del terreno e capire che ruolo hanno nella trasformazione del carbonio. Alcuni virus uccidono l’organismo ospite, alterando l’equilibrio della comunità microbica. Altri contengono geni metabolici ausiliari che codificano proteine che causano il rilascio del carbonio immagazzinato nella materia vegetale. “Non è una cosa che normalmente ci si aspetta che i virus facciano bene, e abbiamo tanti dati non pubblicati che dimostrano che potrebbero fare molto di più”, spiega l’ecologa.

Ora che le temperature nell’emisfero settentrionale stanno risalendo, i ricercatori si preparano a tornare nei siti di ricerca nella regione artica. Nella torbiera di Stordalen la terra è ancora coperta di neve e le temperature sono ben al di sotto dello zero. Però il disgelo sta arrivando, e Rich e Varner non vedono l’ora di riprendere a studiare i misteri dei microrganismi nascosti nel permafrost.

 

FonteLe Scienze

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