Abbiamo avuto paura. Ci siamo isolati. Abbiamo partecipato increduli a uno scenario impensabile. Ci siamo sentiti inermi in un mondo che ci aveva abituato a sentirci invincibili. Vittime di qualcosa di invisibile che ci stava portando via amici e familiari in modo imprevedibile e subdolo. Abbiamo capito quanto ci mancava il benessere di quelle piccole cose del quotidiano che ci erano negate e che in epoche normali non riuscivamo ad apprezzare.

E poi è arrivato il vaccino, poi la riduzione del contagio, poi le aperture. Dopo più di 700 milioni di infettati, quasi 7 milioni di persone che non ce l’hanno fatta, abbiamo tutti tirato un sospiro di sollievo e apprezzato il ritorno alla vita normale. Ma non è stato così per tutti.

Per circa il 10% delle persone che avevano contratto il virus la vita, normale, non è tornata. Pian pianino ci si è resi conto che non erano casi isolati, frutto di stress o paura. Si è cominciato a registrare dei sintomi ricorrenti che si ripetevano in più di un paziente, si è cominciato a parlarne in ambienti scientifici, arrivando a raccogliere tutti questi casi come “conseguenze post infezione acuta da COVID-19” o, più semplicemente, long-COVID.

È una condizione molto difficile da definire e quindi ancora poco chiara. Il solo rapporto temporale non è sufficiente a escludere altre cause ed è chiaro a tutti che un’associazione di eventi non configura automaticamente un rapporto causa-effetto. Eppure, siamo tutti tentati dall’attribuire responsabilità a qualcosa che ci pare evidente piuttosto che rassegnarsi a non capire. Questo è umano, ma crea tanta confusione.

Fenomeno analogo, che è successo e succede ancora, è quello di attribuire al vaccino qualsiasi evento negativo accada dopo essersi sottoposti alla vaccinazione. E così, qualsiasi mal di testa, qualsiasi occhio rosso, qualsiasi parestesia, raffreddore o ipoacusia è diventata conseguenza del COVID o colpa della vaccinazione.

A tentare di fare chiarezza su questo argomento sono state pubblicate già alcune review: l’ultima su Nature Reviews Microbiology, raccoglie tutte le sindromi finora riconosciute come conseguenza a distanza dell’infezione da COVID. La sindrome da long-COVID interessa prevalentemente pazienti di qualsiasi età ma più frequentemente soggetti con una età compresa tra i 36 e i 50 anni, non ospedalizzati e con una malattia lieve-moderata.

Fattori di rischio sono il genere femminile, la presenza di diabete di tipo 2, precedenti infezioni virali, disordini del tessuto connettivo, sindrome da iperattività, deficit di attenzione, riniti allergiche, ma in circa 1/3 dei casi non è individuabile alcun fattore di rischio.

L’ipotesi patogenetica più probabile è che il virus, anche dopo l’infezione, continui ad albergare nell’individuo anche dopo la guarigione. Persistenza del virus o di proteine virali sono state descritte in pazienti con long-COVID nel cervello, occhi, linfonodi, mammella, polmoni, fegato, muscoli, appendice, feci, urine, nell’apparato riproduttivo e, specialmente, nell’apparato digerente.

È interessante notare che i danni da long-COVID non sono direttamente collegati alla infezione, ma sono prevalentemente conseguenza della risposta immunitaria incontrollata e di un danno vascolare con possibili trombosi che danneggiano i loro tessuti tributari.

Il sintomo più frequente e debilitante, presente in circa la metà dei casi, è quello dell’astenia o fatica cronica, definita come riduzione o compromissione della capacità di impegnarsi nelle attività lavorative, educative, sociali o personali per almeno sei mesi, accompagnata da una profonda stanchezza non alleviata dal riposo o dal sonno. Più raramente può essere associato a un deterioramento cognitivo che può incidere anche sull’autonomia motoria. Manifestazioni simili sono la ridotta soglia anaerobica, il ridotto utilizzo dell’ossigeno, di acidi grassi e aminoacidi.

Questi disturbi possono essere dovuti a una disfunzione del metabolismo dei mitocondri che sono dei piccoli organelli presenti all’interno di tutte le cellule che rappresentano la fonte della nostra energia. L’attivazione non controllata del sistema immunitario genera alterazioni dei mediatori dell’infiammazione che può danneggiare varie strutture, tra cui proprio i mitocondri.

È stata anche descritta una frammentazione di questi organelli come conseguenza dell’attivazione post-COVID del virus della Mononucleosi. L’attivazione del sistema immunitario è responsabile anche della formazione di autoanticorpi contro alcuni tessuti come il sistema nervoso centrale, il tessuto connettivo, i fattori della coagulazione, le piastrine e contro organi come polmoni, pelle e apparato digerente. Alla sindrome della fatica cronica possono contribuire anche disturbi vascolari di tipo endoteliale e la presenza di globuli rossi deformati.

disturbi cognitivi nel long-COVID sono della stessa entità dello stato di ebbrezza da intossicazione da alcol o possono essere paragonati a 10 anni di invecchiamento cognitivo. Altri quadri clinici comprendono convulsioni, mente annebbiata, demenza e anche psicosi che si può manifestare nel 26% a 1 anno dalla guarigione.

Tutti questi danni sono in gran parte legati alla risposta immuno-infiammatoria e ai danni vascolari e tendono a comparire settimane o addirittura mesi dopo la fine della fase acuta. Insorgenza tardiva, anche dopo 1 anno, possono averla anche dolori alle articolazioni, al collo e alla schiena, parestesie, perdita di capelli, visione offuscata e gonfiore di gambe, mani e piedi.

Studi eseguiti con la risonanza magnetica hanno dimostrato insufficienza cardiaca e aritmie in più della metà dei pazienti che avevano superato l’infezione da COVID già da un anno. Altri sintomi possono essere legati all’apparato riproduttivo come disordini mestruali, disfunzione erettile, ipospermia, all’apparato respiratorio con respiro corto e tosse, all’apparato digerente con disturbi come nausea, vomito, reflusso, ma anche perdita di appetito e dimagramento.

Non potevano mancare danni al microbiota con riduzione del Faecalibacterium prausnitzii, un battere con attività antinfiammatoria e altri batteri produttori di butirrato, un metabolita utilissimo per la salute del colon, ma anche per quella cognitiva. Infine, va sottolineata la aumentata frequenza di insorgenza di diabete di tipo 2.

È ancora difficile fare una diagnosi specifica di long-COVID anche considerando che i sintomi lamentati dai pazienti sono gli stessi presenti dopo tante altre malattie infettive. In attesa dei tanti biomarcatori in corso di valutazione, la diagnosi si basa sulla evidenza clinica dell’infezione da COVID e dei comuni strumenti diagnostici, in particolare quelli in grado di valutare il livello di attività del sistema immuno-infiammatorio o piccole conseguenze di patologie vascolari e fini alterazioni neurologiche.

I cani riconoscono anche i sintomi del long-Covid

È interessante notare che alcuni cani particolarmente addestrati, sono in grado di individuare con il solo olfatto non solo quasi tutti i pazienti affetti da COVID, ma anche più della metà di quelli con long-COVID. Infatti uno studio pubblicato sul National Library of Medicine dimostra che l’utilizzo di cani da rilevamento addestrati può rivelarsi un ottimo approccio nel campo dei test rapidi, per la loro capacità olfattiva. Inoltre un secondo studio, pubblicato su MedRxiv, documenta la capacità dei cani da fiuto di individuare la persistenza di SARS-CoV-2 da campioni di sudore ascellare.

Il trattamento è prevalentemente sintomatico. Sono stati usati β-bloccanti per le aritmie cardiache, un antagonista degli oppioidi (usato in genere per la dipendenza dall’alcol) come modulatore della neuro-infiammazione, immunoglobuline per le disfunzioni immunitarie, antistaminici, anticoagulanti. Un piccolo trial italiano ha segnalato l’efficacia anche dell’arginina (un aminoacido) associata alla vitamina C.

Ci sono state isolate segnalazioni che hanno dimostrato che i pazienti con COVID acuto trattati con antivirali hanno una minore probabilità di sviluppare il long-COVID. I vaccinati con due dosi contro la variante Omicron sembrano molto più protetti dal long-COVID rispetto a quelli vaccinati per il Delta, così come quelli che hanno avuto più di una infezione hanno maggiori probabilità di complicazioni tardive. E comunque, accanto a disagi a volte anche difficili da tollerare, sembra che la sindrome da long-COVID non comporti conseguenze importanti.

Resta il fatto che, in un’era in cui ormai usiamo l’intelligenza artificiale anche nel quotidiano, programmiamo missioni nello spazio inesplorato e viaggiamo verso il metaverso, abbiamo scoperto una fragilità antica che ha lasciato sulla sua strada una scia di paura, ansia, inquietudine per un senso di impotenza contro un nemico invisibile.

Ma la speranza è che tutto questo abbia ridimensionato il nostro senso di onnipotenza e insegnato l’importanza di comportamenti giusti, un corretto stile di vita e l’adeguato uso delle risorse sanitarie scientificamente testate.

 

Fonte: Rewriters

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