Il devastante dolore cronico nasce da una complessa rete di interazioni nel corpo umano in parte ancora da chiarire e su cui agiscono pure fattori psicologici, comportamentali e addirittura sociali. Per mitigarlo sono necessari interventi personalizzati e multidisciplinari, non solo farmacologici. Ma milioni di persone sono ancora senza aiuto.

Philip Kass trascorre il 90 per cento della sua giornata sdraiato su un letto a due piazze in una stanza scarsamente decorata che apparteneva a sua nipote. La maggior parte dei pasti li consuma con un piatto in equilibrio sul petto e di solito guarda la televisione perché leggere è troppo stressante.

“Vivo a malapena”, mi ha detto in una calda notte di giugno dell’anno scorso.

Da quando, 23 anni fa, si è infortunato alla schiena, il dolore ha divorato la vita di Kass. Gli è costato la carriera, le relazioni, la mobilità e l’indipendenza.

Oggi, a 55 anni, Kass vive con la sorella e la sua famiglia a San Francisco, in California. Di tanto in tanto si unisce a loro per la cena, il che significa che mangia in piedi. E una volta al giorno cerca di camminare per quattro o cinque isolati nel quartiere. Ma teme che qualsiasi attività, camminare troppo velocemente o stare seduto in posizione eretta per più di qualche minuto, scateni una nuova serie di tormenti che possono richiedere giorni o settimane per attenuarsi.

“Mi ha semplicemente paralizzato”, dice.

Un centro per il trattamento del dolore cronico in Francia

Kass teme di poter perdere l’accesso ad alcuni dei farmaci che gli offrono sollievo.

Alcune delle cose descritte da Kass mi sono familiari. Sono stato bloccato a terra dal dolore spinale diverse volte nella mia vita. A vent’anni sono stato immobilizzata per tre mesi. A trent’anni e a quaranta, ogni episodio di forte dolore è durato più di un anno. Ho trascorso almeno un altro mezzo decennio in piedi o camminando durante le riunioni, i pasti e i film, per paura che anche pochi minuti trascorsi seduto si traducessero in settimane di dolore invalidante. Per anni ho letto tutto quello che ho trovato per capire meglio perché il dolore persisteva.

Il quadro che emerse fu complesso e sorprendente. Negli ultimi decenni, un numero crescente di prove ha indicato che lo stesso macchinario che elabora il dolore può contribuire a sostenere la sensazione o a peggiorarla. Alcuni ricercatori hanno esplorato interazioni inaspettate tra il sistema immunitario e quello nervoso, dimostrando, per esempio, che l’infiammazione, a lungo considerata una causa del dolore, potrebbe anche essere fondamentale per risolverlo. Altri hanno dimostrato come la depressione, l’ansia e altri tipi di disagio emotivo possono sia alimentare, e alimentarsi, dell’esperienza del dolore.

Sebbene esistano trattamenti che riconoscono questa sfaccettata natura biopsicosociale del dolore, la pratica medica non ha tenuto il passo con la scienza, e non di poco.

In tutto il mondo, i medici prescrivono gli stessi tipi di intervento per le condizioni di dolore cronico che hanno offerto per decenni. Molte persone non ricevono alcun trattamento. In Nord America e in Australia, l’eccesso di prescrizione e l’abuso di oppioidi hanno portato a restrizioni severe su uno dei principali strumenti usati da tempo dai medici per gestire il dolore. Kass, e l’altra mezza dozzina di persone che ho intervistato e che convivono con il dolore, hanno trascorso anni passando da un medico all’altro, cercando di trovare qualcuno in grado di sradicare il loro tormento, o almeno ridurlo. E non sono soli.

Nell’ultima indagine significativa, condotta nel 2016, negli Stati Uniti circa il 20 per cento degli adulti – circa 50 milioni di persone – nei sei mesi precedenti aveva provato dolore nella maggior parte dei giorni se non ogni giorno. Circa l’otto per cento – quasi 20 milioni di persone – aveva un dolore cronico ad alto impatto, del tipo che interferisce con il lavoro o le attività quotidiane. Numeri studi simili sono stati riportati da indagini condotte in Europa.

Sebbene il campo della ricerca sul dolore sia piccolo e frammentato tra diverse specialità, alcuni ricercatori e medici sostengono che sono già disponibili le conoscenze e gli strumenti per trattare le persone affette da dolore cronico in modo più efficiente ed efficace di quanto sia stato fatto in passato. Ciò che serve, secondo loro, è la volontà di arrivarci, sia da parte dell’establishment medico che della società in generale.

“Abbiamo molti trattamenti e approcci che possono già avere un impatto, ma dobbiamo metterli nelle mani delle persone e dobbiamo pagarli”, afferma Sean Mackey, ricercatore medico alla Stanford University, in California.

L’allarme del corpo

Il dolore spesso sembra un’esperienza semplice: basta afferrare una padella calda per far scattare un allarme doloroso che segnala un possibile danno. Ma in molti casi in cui il dolore persiste, la relazione tra dolore e danno è tutt’altro che semplice.

Nel 1996, quando Kass aveva 28 anni, lavorava come istruttore di acrobazie presso una società di viaggi e turismo alle Bahamas. Una mattina, dopo una giornata passata ad afferrare persone al trapezio volante, fu svegliato da un dolore lancinante alla schiena.

Licenziatosi e tornato negli Stati Uniti, la risonanza magnetica (RMN) rivelò il danneggiamento di un disco cartilagineo nella parte bassa della schiena, tra le vertebre L5 e S1.

È impossibile sapere con esattezza che cosa stesse accadendo nel corpo di Kass nelle prime ore e nei primi giorni dopo l’infortunio. Gli specialisti che ha visitato negli Stati Uniti gli hanno detto che i frammenti di materiale del disco danneggiato stavano probabilmente premendo sui nervi spinali. Ma supponendo che Kass avesse subito un qualche tipo di danno ai tessuti, l’infiammazione che ne era derivata deve avere quasi certamente alterato il suo meccanismo di elaborazione del dolore.

I ricercatori sanno da decenni che i danni ai tessuti possono alterare la sensibilità dei neuroni del sistema nervoso periferico (i nervi al di fuori del midollo spinale, del tronco encefalico e del cervello) e il modo in cui il sistema nervoso centrale interpreta i segnali.

Dopo una scottatura solare, per esempio, l’acqua calda che il giorno prima sembrava piacevole può sembrare scottante. Questo accade perché l’infiammazione causata dalla scottatura altera la sensibilità dei nervi del sistema nervoso periferico, i nocicettori, che riconoscono gli stimoli nocivi – un fenomeno chiamato sensibilizzazione periferica. Allo stesso modo, giorni dopo un intervento chirurgico, ben lontano dal sito dell’incisione, dove non c’è infiammazione, un leggero tocco della pelle potrebbe far male. Ciò è dovuto a cambiamenti nel sistema nervoso centrale. Questo processo, noto come sensibilizzazione centrale, è guidato da molteplici meccanismi, ma in questo caso l’attivazione dei neuroni sensoriali attivati da stimoli innocui viene ora percepito come dolore.

Nella maggior parte delle persone, per la maggior parte del tempo, la sensibilizzazione periferica e centrale è temporanea e adattativa. Impedisce di danneggiare ulteriormente i tessuti offesi. Ma che cosa succede se la sensibilità amplificata persiste anche dopo la guarigione delle ferite, o addirittura in assenza di danni tissutali rilevabili?

Diversi studi, condotti principalmente su animali, hanno identificato decine di vie e tipi di cellule coinvolte nella sensibilizzazione periferica e centrale. In seguito a un danno – per esempio il taglio o lo schiacciamento del nervo sciatico di un ratto – intorno ai nocicettori si attiva una serie di cellule, rilasciando fattori che rendono i neuroni più sensibili. Si tratta di macrofagi, neutrofili, linfociti T e linfociti B, nonché di cellule gliali, cellule non neuronali che sostengono e proteggono i neuroni.

Si tratta di un insieme di interazioni straordinariamente complesso, afferma Jeffrey Mogil, neuroscienziato alla McGill University di Montreal, in Canada. “L’evoluzione ha preso un pezzo di corda e casualmente, perché ha avuto milioni di anni, lo ha annodato in un gomitolo infernale”, dice.

La comunicazione tra nocicettori e cellule immunitarie avviene in entrambi i sensi. In certi contesti, i neuroni che attivano il dolore possono bloccare o aumentare l’attività dei neutrofili e di altri tipi di cellule immunitarie. “Il sistema nervoso non deve nemmeno passare per il cervello, ma invia segnali direttamente al sistema immunitario della periferia”, afferma Isaac Chiu, neuroimmunologo alla Harvard Medical School di Boston.

Nelle persone affette da patologie cutanee come l’eczema, dove c’è un’infiammazione continua, queste interazioni reciproche tra il sistema immunitario e i nocicettori potrebbero contribuire a determinare un’infiammazione persistente e, di conseguenza, un dolore persistente.

Anche il microbioma di una persona, che interagisce sia con il sistema immunitario che con quello nervoso, potrebbe avere un ruolo in alcune condizioni di dolore. Diversi gruppi, per esempio, stanno studiando l’uso di probiotici per trattare le persone affette da sindrome dell’intestino irritabile (che provoca dolore addominale).

Un’altra idea emergente è che alcuni processi del sistema immunitario che guidano la sensibilizzazione potrebbero essere importanti anche per allontanare il dolore. L’anno scorso, gli scienziati della McGill University hanno pubblicato un’analisi dei modelli di espressione genica nelle persone con dolore lombare. Sebbene siano necessari studi clinici per verificare i risultati, i loro dati indicano che se l’infiammazione viene bloccata da farmaci, i neutrofili non fanno ciò che dovrebbero fare per risolvere il dolore.

Questo è in contrasto con le aspettative, afferma Clifford Woolf, neuroscienziato alla Harvard Medical School, il primo a dimostrare la sensibilizzazione centrale. I medici hanno a lungo prescritto farmaci antinfiammatori con la premessa che se si lascia che il dolore persista, potrebbe diventare cronico. “Questo lavoro suggerisce il completo e inaspettato contrario, cioè che l’infiammazione in realtà aiuta”, afferma Woolf.

Gli amplificatori del dolore

Il dolore cronico di ogni persona si sviluppa in modo particolare.

Dopo due anni trascorsi prevalentemente in posizione supina, Kass è stato operato per fondere diverse vertebre. Le sue condizioni si sono stabilizzate abbastanza da permettergli di avviare un’attività di tuttofare. Aveva ancora dolore per la maggior parte del tempo, ma finché limitava le ore di lavoro e i tipi di lavoro che svolgeva, la situazione era gestibile.

Poi, nel 2008, senza un motivo apparente, il dolore di Kass è peggiorato. Per alleviarlo, ha iniziato a prendere Norco, una miscela di idrocodone e paracetamolo (acetaminofene). Ha subito un’altra operazione per inserire un dispositivo che somministra farmaci antidolorifici direttamente nel fluido spinale. Nel corso degli anni ha subito tre iniezioni di steroidi in diversi punti della colonna vertebrale.

Niente ha funzionato. Nel 2015, Kass ha abbandonato la sua attività. L’esercizio fisico non valeva più il rischio. Si verificava “questo terribile blocco ritardato”, dice, quando faceva qualcosa – per esempio andare in bicicletta per qualche isolato – per poi essere inabile il giorno successivo.

Non è dato sapere se i processi del sistema immunitario, i danni ai nervi o qualche altra patologia nella parte bassa della schiena contribuiscano a mantenere il dolore di Kass oggi. Ma i neuroscienziati hanno scoperto tutti i modi in cui, nel tempo, l’esperienza del dolore può essere sostenuta e persino amplificata.

Negli ultimi decenni, studi di imaging cerebrale hanno rivelato cambiamenti in diverse aree del cervello in persone che hanno sperimentato un dolore prolungato; fra questi il sistema limbico, la parte coinvolta nelle risposte comportamentali ed emotive. Gli esperimenti condotti su modelli animali suggeriscono che alcune delle reti neurali che vengono riorganizzate dal dolore cronico potrebbero, a loro volta, influenzare il modo in cui viene percepito il dolore. Nel 2019, ricercatori della Stanford University hanno sfruttato una tecnica chiamata chemiogenetica per ingegnerizzare i topi in modo che la loro attività neuronale potesse essere finemente regolata utilizzando vari farmaci. Quando i ricercatori hanno spento alcuni neuroni in una parte del sistema limbico chiamata amigdala, i topi potevano ancora percepire il dolore, ma si comportavano come se il dolore fosse meno fastidioso.

Questi risultati sollevano la questione della possibilità di sviluppare un nuovo tipo di antidolorifico che agisca sulla sgradevolezza del dolore invece che sulla sua sensazione, spiega Grégory Scherrer, che ha diretto lo studio e che ora lavora all’Università del North Carolina a Chapel Hill.

Un’altra area di lavoro prevede la ricerca di associazioni tra alcune proprietà del cervello delle persone – mostrate dalla risonanza magnetica funzionale (fMRI) – e il modo in cui hanno risposto in precedenza a questionari che valutavano i loro livelli di depressione o ansia. Questi studi hanno rivelato che l’attenzione, le aspettative, l’ansia, la depressione, il pensiero catastrofico e altro ancora possono influenzare la percezione del dolore.

Chiunque abbia provato un forte dolore sa che in presenza di un disagio oltre una certa soglia un pensiero domina su tutti gli altri: “Fallo smettere”. Ma, almeno in certe situazioni, potrebbe essere vero il detto che l’atteggiamento è tutto. “Non c’è dubbio che il contesto in cui si sperimenta il dolore – le aspettative e l’attenzione che si concentra su di esso – influenzi drammaticamente la percezione del dolore, attraverso vere e proprie reti neurali fisiologiche”, afferma la neuroscienziata Irene Tracey, prorettrice dell’Università di Oxford, nel Regno Unito.

Il contesto può includere le persone che ci circondano e gli atteggiamenti che hanno. Tra le cose che possono aumentare l’ansia e la depressione – che a loro volta possono far aumentare il dolore – c’è lo scetticismo di medici, amici, partner e familiari. Molte persone affette da dolore cronico devono affrontare pregiudizi che possono essere esacerbati da fattori quali la razza, lo stigma sull’uso e l’abuso di oppioidi e il fatto che la fonte del dolore non sia visibile od ovvia.

Quána Madison, che soffre di forti dolori dal 2016, racconta che le sue preoccupazioni sul dolore sono state talvolta accolte con sospetto.

Quána Madison, un’artista di 42 anni che vive a Denver, in Colorado, dal 2016 avverte ogni giorno forti dolori in diverse parti del corpo. In quell’anno ha subito interventi chirurgici per l’asportazione del seno, dell’utero e delle ovaie. A questi sono seguite ricostruzioni del seno e un’altra operazione di emergenza per riparare una complicazione potenzialmente letale dell’isterectomia.

Madison, che è afroamericana, ha dovuto affrontare il dolore, ma anche il sospetto e i pregiudizi degli altri. Durante una delle sue visite al pronto soccorso nel 2017, un’infermiera, che stava cercando di prelevare il suo sangue, ha chiamato la polizia dopo che Madison l’aveva avvertita che, a causa della sua elevata sensibilità al dolore, avrebbe potuto urlare se l’infermiera non avesse usato un ago di piccolo calibro e un cuscinetto caldo.

Predittori del dolore

Di fronte al dolore incessante e ai dubbi degli altri, è facile iniziare a rimuginare: “Perché io? Cosa c’è nel mio corpo, nel mio cervello, nel mio passato, che fa sì che questo dolore aumenti e non diminuisca?”

I ricercatori hanno iniziato a individuare alcuni dei fattori che correlano con un rischio maggiore di dolore cronico ricorrendo alla genomica, alle indagini epidemiologiche e all’imaging cerebrale.

Gli studi sui gemelli indicano che l’ereditarietà delle comuni condizioni di dolore cronico (sindrome dell’intestino irritabile, dolore alla schiena e al collo ed emicrania) varia dal 25 per cento al 50 per cento circa. Tuttavia, gli studi di genomica, che hanno coinvolto principalmente persone affette da emicrania, hanno generalmente portato alla luce varianti geniche che, singolarmente, hanno effetti minimi sul rischio di sviluppare dolore cronico.

Vari fattori di rischio per il dolore cronico sono stati identificati da indagini epidemiologiche, in cui vengono somministrati questionari a migliaia di persone. I principali fattori che influenzano il rischio sono: l’età, il sesso, lo status socio-economico, i livelli di ansia, depressione, sonno e attività fisica e l’indice di massa corporea. Per ragioni ancora da chiarire, è più probabile che il dolore persistente sia riferito da persone che si identificano come donne rispetto a quelle che si identificano come uomini. Nel caso della fibromialgia, un disturbo caratterizzato da dolori muscolo-scheletrici diffusi e affaticamento, nonché da problemi di sonno, memoria e umore, le donne hanno una probabilità nove volte superiore rispetto agli uomini. Inoltre, la probabilità di sviluppare una condizione di dolore cronico aumenta con l’età, fino a circa 60 anni.

Separare causa ed effetto è una sfida. Le persone che riferiscono alti livelli di depressione e ansia hanno maggiori probabilità di sviluppare una condizione di dolore? O è il dolore a renderle depresse e ansiose?

Secondo Daniel Clauw, ricercatore medico all’Università del Michigan ad Ann Arbor, molti studi dimostrano che “se si migliora drasticamente il dolore di una persona”, per esempio con un intervento di sostituzione del ginocchio, “spesso si migliora drasticamente anche l’ansia, la depressione, la catastrofizzazione”.

Ma potrebbe anche esserci qualcosa nel cervello delle persone che le predispone al dolore cronico.

Utilizzando la fMRI, Tracey e altri hanno valutato le proprietà cerebrali di gruppi di persone con una condizione di dolore (per esempio, mal di schiena o osteoartrite). Dopo un intervento chirurgico per il trattamento della patologia, o dopo un certo periodo di tempo, solo alcune persone di ciascun gruppo continuano ad avere dolore. In diversi studi, i ricercatori sono stati in grado di fare previsioni su chi rientrerà in quale gruppo, usando i modelli di attività neurale nel cervello delle persone al momento del primo arruolamento.

Questo gennaio, Tracey e i suoi colleghi hanno valutato le persone che stavano per ricevere la chemioterapia per vari tipi di cancro. Circa il 30 per cento dei sopravvissuti al cancro sviluppa una condizione di dolore cronico chiamata neuropatia periferica indotta dalla chemioterapia. In questo studio, i ricercatori sono riusciti a usare i dati di imaging cerebrale fMRI delle persone, raccolti prima della chemioterapia, per prevedere in quale gruppo sarebbero rientrate.

Tracey afferma che la speranza è quella di identificare quali individui siano più a rischio di neuropatia da agenti chemioterapici, e quindi di adattare i trattamenti per ridurre il rischio.

La pittura è uno dei modi in cui Madison affronta il dolore.

Trattamenti mirati

Gli approcci attualmente usati per trattare le condizioni di dolore più comuni comportano generalmente farmaci e interventi come procedure chirurgiche o blocchi nervosi, l’iniezione di un anestetico locale vicino a un nervo o a un gruppo di nervi. Esistono anche approcci di tipo comportamentale e psicologico, come la terapia cognitivo-comportamentale, che consiste nel cercare di modificare gli schemi di pensiero e di comportamento relativi al dolore, e la terapia fisica per aumentare i livelli di attività e funzionalità.

“Tutte queste cose aiutano alcune persone”, afferma David Clark, anestesista alla Stanford University School of Medicine.

I medici e altri ricercatori stimano che i trattamenti oggi disponibili possano aiutare una persona su tre o una su quattro, in modo che i livelli di dolore da loro riferiti possano diminuire di circa il 30-50 per cento.

Alcuni ricercatori ritengono che un maggiore impegno nell’abbinare le persone con dolore ai trattamenti giusti potrebbe rendere queste opzioni più efficaci.

Un esempio viene da un progetto pluriennale chiamato Multidisciplinary Approach to the Study of Chronic Pelvic Pain (MAPP) Research Network. I dati di questo studio suggeriscono che le persone a cui è stata diagnosticata la sindrome del dolore vescicale (formalmente nota come cistite interstiziale), ma che hanno un dolore limitato alla pelvi, hanno essenzialmente una malattia diversa da quelle a cui è stata data la stessa diagnosi ma che hanno un dolore diffuso in tutto il corpo.

Nelle neuroimmagini, il cervello delle persone con dolore pelvico circoscritto appare sano, mentre le persone con dolore diffuso hanno un cervello simile a quello dei soggetti con diagnosi di fibromialgia, spiega Clauw, che ha partecipato allo studio. Ciò suggerisce che il gruppo con dolore diffuso potrebbe rispondere meglio ai farmaci che alla terapia fisica per la pelvi.

“Entro i prossimi due anni, molti dei trattamenti comunemente utilizzati funzioneranno in un individuo su tre e, grazie a una scelta più intelligente dei soggetti a cui somministrare tali trattamenti, funzioneranno in una persona su due”, afferma Clauw.

Analogamente, motivato dall’idea di adattare meglio i trattamenti ai singoli individui, Mackey a Stanford sta usando una sovvenzione di 12 milioni di dollari del National Institutes of Health statunitense per sviluppare biomarcatori per il dolore.

Circa dieci anni fa, per migliorare l’assistenza alle persone con dolore cronico, Mackey ha creato una piattaforma digitale chiamata CHOIR (Collaborative Health Outcomes Information Registry). Questa piattaforma caratterizza le persone in base al loro funzionamento fisico, psicologico e sociale, in gran parte sulla base dei resoconti dei medici e delle risposte dei partecipanti ai questionari sulla salute. In ultima analisi, l’obiettivo di Mackey è quello di incorporare nel sistema CHOIR biomarcatori del dolore basati sul cervello, oltre ad altre informazioni ricavate dalla metabolomica, dalla proteomica, dalla genomica, dal microbioma e persino da tracciatori di fitness indossabili come Fitbit.

Mackey e i suoi colleghi stanno ancora cercando di mappare le associazioni tra la vasta gamma di biomarcatori che possono essere misurati e l’esperienza del dolore. Ma è convinto della promessa dell’approccio di base: “Sono sempre più ottimista sul fatto che saremo in grado di farlo”, afferma.

La maggior parte dei ricercatori e dei medici concorda sul fatto che potrebbero essere d’aiuto trattamenti più mirati. Ma molte persone con dolore persistente hanno difficoltà ad accedere alle cure.

“Quando vedo le sfide che i pazienti devono affrontare”, dice Mackey, che negli Stati Uniti ha coordinato un tentativo di cambiare il modo in cui le persone che soffrono di dolore vengono valutate e trattate: “lo vedo come un problema di implementazione sociale”.

Grazie alla scoperta da parte dei medici che i farmaci sviluppati per altre patologie, come le crisi epilettiche o la depressione, possono aiutare a trattare il dolore, oggi esistono molti più trattamenti per il dolore cronico rispetto a 20 anni fa. Tra quelli che Mackey elenca ci sono più di 200 farmaci, la maggior parte dei quali non sono oppioidi; terapie mente-corpo, come la terapia dell’accettazione e dell’impegno; e una serie di procedure come quelle che coinvolgono gli stimolatori del midollo spinale – dispositivi impiantati che inviano bassi livelli di elettricità nel midollo spinale.

Ma non arrivano alle persone che potrebbero esserne aiutate, almeno in una certa misura.

Madison, e altre persone con cui ho parlato che vivono con il dolore, mi hanno raccontato storie simili: non potendo ottenere molta assistenza dal sistema sanitario, alla fine hanno messo insieme le proprie forme di trattamento, nate da anni di tentativi ed errori.

“Faccio meditazione. Uso l’aromaterapia. Faccio pittura astratta. Cerco di fare tutto il possibile per aiutarmi ad affrontare ogni giorno il dolore”, dice Madison.

I medici sostengono che sono necessari numerosi cambiamenti per migliorare la situazione. Tra questi, un cambiamento di atteggiamento nei confronti delle condizioni di dolore cronico, la persuasione delle compagnie assicurative a coprire le cure integrative che coinvolgono gruppi multidisciplinari, una migliore educazione e formazione sul dolore nelle scuole di medicina e molti più investimenti nel problema.

I ricercatori che continuano a studiare i meccanismi alla base delle condizioni di dolore cronico potrebbero gradualmente cambiarne la narrazione. E non è impensabile che, un giorno, i fornitori di cure per il dolore saranno formati in modo molto diverso da come lo sono oggi. Ma al momento “è davvero difficile trovare un’assistenza di buona qualità per le persone con dolore cronico”, riconosce Clauw.

Punto di rottura

Nell’inverno del 2020, qualsiasi cosa avesse tenuto insieme Kass in 23 anni di dolore, si ruppe. Al mattino piangeva. A un certo punto, il pianto si trasformò in urlo. Uno degli inquilini del palazzo di Kass a Berkeley, in California, chiuse il suo negozio per alcune settimane a causa del rumore.

Quell’inquilino, che era anche amico di Kass, ogni tanto andava a trovarlo per cercare di aiutarlo. Ma un giorno, all’inizio del 2021, Kass andò in overdose di farmaci con l’intenzione di uccidersi.

Kass pensa di aver perso conoscenza per circa 24 ore prima che il suo amico lo trovasse.

Un’équipe di medici d’urgenza dell’Alta Bates Summit Medical Center di Berkeley lo ha rianimato e tenuto sotto osservazione per tre giorni.

“È stato terribile”, racconta. “Ero spaventato. Avevo un dolore terribile. E non potevo lasciare l’ospedale.”

Dopo giorni in cui Kass implorava il personale dell’ospedale di dargli degli antidolorifici, uno psichiatra gli ha prescritto un oppioide chiamato buprenorfina. Insieme alla mirtazapina, ad altri antidepressivi e a un antipsicotico chiamato Latuda (lurasidone), continua a prendere l’oppioide: otto milligrammi tre volte al giorno.

Kass teme però che, a causa del tipo di assicurazione sanitaria che ha e della diffidenza dei medici a prescrivere oppioidi negli Stati Uniti, la sua prescrizione possa essere interrotta da un giorno all’altro. “Quindi c’è questa paura”, dice. “Senza la buprenorfina, tornerei a urlare ogni giorno.”

Il dolore è un’esperienza universale. Tuttavia, è difficile comprendere cosa possa fare a una persona l’essere dominata dalla paura e tormentata da un allarme che suona continuamente, è difficile anche per quelli di noi che hanno sperimentato, a un certo punto, un lungo periodo di forte dolore.

Per quasi tutto il 2020 e per una parte del 2021, ho limitato la mia permanenza in piedi o a piedi a sessioni di 5-10 minuti. Dopo ogni tentativo di movimento – spesso camminando per l’isolato a poche strade da dove vive ora Kass – mi sdraiavo per un’ora. Mentre ero in piedi, non lasciavo che i miei figli, all’epoca di sei e otto anni, mi toccassero, per evitare che qualche strattone scatenasse un’altra infiammazione durata due settimane. Indossavo guanti da sci quando ero sdraiata sul pavimento perché il freddo peggiorava le trafitture alle braccia. E di notte non riuscivo a dormire per più di due ore.

In quell’inverno del 2020 avevo urlato anch’io.

Sebbene il dolore sia ancora presente ogni giorno e le crisi periodiche, a poco a poco ho recuperato una vita piena grazie ad approcci simili a quelli che un’équipe multidisciplinare del Regno Unito mi aveva fatto conoscere più di dieci anni fa. Ho usato farmaci, meditazione e psicoterapia. Ho usato la terapia cognitivo-comportamentale per monitorare i miei pensieri sul dolore e, alla fine, per modificarli. Ho usato un timer per scandire il ritmo delle mie attività, aumentando inizialmente i tempi di permanenza in piedi di pochi secondi. Ho usato la fisioterapia e l’esercizio fisico per ricondizionare il mio corpo e per continuare a respingere l’allarme “c’è qualcosa che non va” che si è ripetuto all’infinito.

Ma il dolore ha un decorso diverso in ogni persona. Mentre ascolto Kass, la cui pelle è così pallida da essere quasi traslucida, e che a volte si sforza per un incontro o una parola più di quanto mi aspetterei per un uomo della sua età, mi sforzo di capire perché i sistemi sanitari dei paesi più ricchi del mondo non stiano ancora usando tutte le conoscenze che la scienza ha fornito per portare più aiuto a lui e a milioni di altre persone che vivono con il dolore.

 

Fonte: Le Scienze

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