Le barriere coralline, habitat importantissimo per la biodiversità marina, sono fortemente minacciate dal riscaldamento globale, inquinamento, sfruttamento delle coste e pesca intensiva. È però possibile ripristinare le barriere danneggiate grazie a specifici interventi di ripristino, ma è importante agire in modo coordinato e uniforme, come indicano le linee guida messe a punto dai ricercatori dell’Università di Milano Bicocca per il restauro degli atolli delle Maldive.

 

Con le loro architetture variopinte, le barriere coralline sono uno degli ecosistemi sottomarini più spettacolari, ma anche uno dei più vulnerabili. A minacciarle è una miriade di impatti antropici, tra cui: l’inquinamento, la pesca eccessiva, l’impiego di pratiche di pesca impattanti e distruttive e la presenza di specie invasive. Su tutto incombe la grande ombra del cambiamento climatico, con l’acidificazione dei mari e il riscaldamento delle acque superficiali, che causano il cosiddetto coral bleaching, lo sbiancamento dei coralli. Ma non tutto è perduto: è infatti possibile agire per restaurare le barriere e aiutarle a resistere alle difficoltà. Proprio in questi giorni è stato pubblicato un manuale per il ripristino delle barriere coralline nelle Maldive: Coral Reef Restoration Manual Maldives, a cura dei ricercatori del MAHRE, Marine Research and High Education Centre dell’Università di Milano Bicocca.

«Le barriere coralline stanno subendo impatti di diversa natura, sia antropica che naturale, o eventi naturali amplificati da attività umane» spiega Simone Montano, ricercatore del MAHRE e autore della pubblicazione. «Nelle Maldive, la copertura corallina si estendeva fino al 100% in alcuni siti dell’arcipelago. Nel 2016 a scala globale c’è stato uno degli episodi più drammatici di coral bleaching e, in particolare alle Maldive, l’effetto è stato catastrofico, con la perdita del 90% dei coralli nei primi 20 m d’acqua. Abbiamo quindi iniziato una nuova linea di ricerca per il ripristino delle barriere coralline danneggiate con un focus specifico per le Maldive».

Le barriere coralline sono un importante hotspot di biodiversità: pur coprendo solo lo 0,2% dei fondali marini ospitano nel complesso il 25% delle specie. Inoltre, proteggono le coste dall’erosione e sono fonte di sostentamento delle economie locali, sia per le risorse ittiche, che per il richiamo turistico, che in alcuni posti, tra cui le Maldive, è diventato il principale motore economico. Le elaborate costruzioni calcaree delle barriere sono create in migliaia di anni da minuscoli organismi: i polipi. Si tratta di invertebrati grandi da 1 a 3 mm, imparentati con le meduse, che formano dei veri e propri superorganismi, riunendosi in miriadi di individui a formare delle colonie, i coralli. Come le meduse, i polipi possiedono delle cellule urticanti, ma la caratteristica principale delle specie che formano le barriere è la loro capacità di secernere corallite, ovvero carbonato di calcio, a formare uno scheletro esterno. Nel tempo, pian piano, questi scheletri calcarei vanno a sovrapporsi creando le barriere coralline: gli strati più profondi sono quelli più antichi e ormai disabitati, mentre in quelli più superficiali i polipi continuano la loro opera di biocostruttori. Le barriere sono costruzioni vive e dinamiche, che continuano a crescere naturalmente anno dopo anno. E qui incombe il problema dell’acidificazione dei mari, fenomeno causato dall’aumento delle emissioni di anidride carbonica. Mari e oceani assorbono l’anidride carbonica atmosferica e la convertono in acido carbonico, e questo da un lato contribuisce a mitigare i cambiamenti climatici, dall’altro acidifica le acque. E per i coralli è un bel problema, perché l’acido carbonico scioglie il carbonato di calcio che forma le barriere.

Certo, l’acido carbonico sta aumentando sopra misura a causa delle attività antropiche, però è normalmente presente nei mari perché gli organismi che li abitano – inclusi i polipi- respirano ed emettono anidride carbonica. Problema risolto efficacemente grazie alla simbiosi con alghe unicellulari, le zooxanthellae: grazie alla fotosintesi, le alghe sottraggono l’anidride carbonica e favoriscono la formazione del carbonato di calcio necessario per la costruzione dello scheletro calcareo. Inoltre forniscono al polipo ossigeno e nutrienti, oltre a conferire ai coralli i colori sgargianti che tanto ammiriamo. In cambio, le zooxanthellae vivono in un ambiente sicuro e ricevono dai polipi i composti necessari per la fotosintesi: l’anidride carbonica prodotta dalla respirazione e composti inorganici derivanti dal metabolismo. In caso di forte stress, come nel caso di un elevato riscaldamento delle acque superficiali, i coralli perdono questa fondamentale simbiosi: letteralmente espellono le alghe e si ammalano, diventando suscettibili alle infezioni batteriche. Inoltre perdono i colori, da cui il termine “sbiancamento”. Non si tratta di un processo necessariamente irreversibile: le colonie possono recuperare naturalmente, ma ci vuole molto tempo; soprattutto, i fattori di stress antropici non aiutano le colonie a rimettersi in sesto.

Qui entrano in gioco i progetti di conservazione di coral restoration, che hanno l’intento di dare un boost ai coralli e aiutare le barriere a rimanere in vita. Esistono diversi metodi di ripristino, però, e spesso manca una valutazione univoca della loro adeguatezza e fruttuosità. «Nel corso degli anni ci siamo resi conto che è necessario fornire dei criteri precisi non solo per fare gli interventi, ma anche per monitorarne l’efficacia. Questo perché le Maldive si sono adoperate con progetti di coral restoration anche con personale che non ha una conoscenza specifica di biologia ed ecologia marina: la maggior parte dei progetti sono sviluppati da privati che hanno resort di lusso, unica forma di turismo delle isole, e lo staff che ci lavora non è formato unicamente da biologi marini» spiega Montano. «Le linee guida che abbiamo realizzato consentono a esperti e meno esperti nel ripristino delle barriere coralline di misurare l’efficacia dei propri interventi». Le linee guida sono state sviluppate nell’ambito della tesi di laurea di Federica Siena, coautrice del manuale, e grazie alla collaborazione con il Maldives Marine Research Institute, centro di ricerca maldiviano. Il tipo di monitoraggio proposto è di tipo adattativo: seguendo passo passo l’evoluzione dei coralli dopo l’intervento di ripristino, è anche possibile aggiustare il tiro se qualcosa non sta funzionando. «Misurando allo stesso modo progetti realizzati con tecniche differenti e in posti diversi alle Maldive, si può valutare l’effetto cumulativo delle pratiche di restoration sull’intero sistema. Alcuni indicatori ecologici devono essere misurati obbligatoriamente da tutti i progetti. Nel caso di specie allevate e trapiantate, si monitora la velocità di crescita dei coralli, il tasso di sopravvivenza, la presenza di organismi simbionti, se i coralli manifestano stress o malattie. Questo permette, per esempio, di capire quali strategie adottare se in un determinato atollo la tecnica non funziona. Poi ci sono bioindicatori facoltativi, importantissimi per capire se si sta procedendo sulla strada giusta, ma non così fondamentali per determinare un cambio del progetto in corso» spiega Montano.

I coralli stanno perdendo i loro bellissimi colori e soprattutto la loro fondamentale ricchezza di vita e diversità. Secondo il sesto report sullo stato dei coralli nel mondo, prodotto nel 2020 dal Global Coral Reef Monitoring Network, partenariato internazionale che riunisce i maggiori centri di ricerca sui coralli, tra il 2009 e il 2018 abbiamo perso il 14% delle barriere, il che, in termini di proporzioni, equivale alla scomparsa di tutte le barriere australiane. Questo è dovuto a ondate ripetute di eventi di sbiancamento, che non danno il tempo necessario ai coralli di ristabilirsi in modo naturale. Inoltre, i fattori di stress locali (come lo sviluppo delle coste e il conseguente aumento degli inquinanti) mettono a dura prova la capacità di recupero da parte delle barriere malate. Le previsioni per il futuro non sono rosee: secondo uno studio pubblicato nel 2021, non solo dagli anni Sessanta a oggi la crescita delle barriere è rallentata costantemente, ma se non si riescono a rallentare l’acidificazione e il riscaldamento dei mari, entro il 2054 le barriere potrebbero letteralmente dissolversi. Un segnale positivo viene dal sud-est asiatico, dove nel 2019 si è osservata una netta ripresa delle barriere: un’elevata biodiversità di specie conferisce una maggiore resistenza e una migliore capacità di adattamento. Uno studio condotto alle Hawaii invece, rivela che i coralli che vivono in acque più pulite sono in grado di resistere e reagire più velocemente alle ondate di calore che provocano lo sbiancamento.

Ecco perché l’intervento umano con le pratiche di ripristino è importante, unito al monitoraggio costante e uniforme dello stato di salute delle barriere e dell’efficacia degli interventi e, soprattutto, a portare avanti politiche per la mitigazione degli impatti antropici. «Un ripristino vero e proprio è un po’ un’utopia, ma con l’ordine di grandezza giusto è possibile farlo» commenta Simone Montano. «Restoration vorrebbe dire portare un ecosistema perturbato esattamente alle condizioni originali. Questo non è possibile perché qualsiasi forma di disturbo, soprattutto quella del riscaldamento globale, non si fermerà nel tempo, continuerà a impattare sul reef. Quindi il futuro è la riabilitation: anche se non possiamo ricostruire esattamente quello che c’era prima, possiamo ripristinarlo dal punto di vista funzionale. Per fare un esempio: non è possibile rimettere tutte le specie che c’erano prima dell’evento di bleaching, perché alcune non troveranno mai più le condizioni ambientali che gli permettono di sopravvivere, ma è più opportuno trapiantare le specie che possono sopravvivere e resistere con le condizioni attuali e future. Questo permette di ristabilire le funzioni dell’ecosistema e tutti i servizi ecosistemici a esso connesso, quel tanto che basta per permettergli di esistere e resistere fintanto che le politiche di mitigazione delle minacce, qualsiasi esse siano entrino in atto. Lo stress del riscaldamento globale è presente e sicuramente va affrontato, ma non deve diventare una scusa per non agire sui fattori di stress locale che ne amplificano l’effetto e che indeboliscono i coralli».

 

Fonte: Scienza in Rete

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